Un uomo era stato accusato dalla compagna, nonché dai figli minori e dalla madre e dalla sorella della donna, di essersi reso autore di gravi maltrattamenti in famiglia.

Durante la deposizione resa in primo grado, la denunciante confermava le accuse, ma in seguito ella dichiarava che esse erano false, precisando altresì di aver “imbeccato” i figli minori nell’ accusare – altrettanto falsamente – il loro padre.

Il Tribunale e la Corte di appello reputano non credibili le motivazioni sottese alla ritrattazione, sintetizzabili nel dichiarato rancore della donna nei confronti del convivente, il quale sarebbe rincasato non propriamente “profumato”, al termine delle sue giornate lavorative come pastore, costringendola inoltre ad effettuare delle “commissioni in sua vece”.

Ne discendeva la condanna dell’uomo sia in primo, che in secondo grado.

Avverso la pronuncia della Corte distrettuale propone ricorso in Cassazione l’imputato, lamentando l’errata valutazione di detta ritrattazione e delle dichiarazioni rese dai testi indicati dalla difesa, sostenendo inoltre che i fatti integrerebbero – semmai – il reato (meno grave) di abuso dei mezzi di correzione (in considerazione del c.d. “animus corrigendi” che avrebbe improntato le condotte dell’imputato) e lamentando, infine, il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

Con la sentenza 24027, depositata il 24 agosto 2020, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, rilevando la genericità e manifesta infondatezza dei relativi motivi, traducentisi in un’inammissibile richiesta di valutazione alternativa, da parte del giudice di legittimità, del compendio probatorio, stante la “completa e logica valutazione” effettuata nei due gradi di giudizio di merito.

Segnatamente, quanto alla ritrattazione, il Supremo Collegio dapprima evidenzia la convergenza delle dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa e dai figli minori relativamente ai gravi maltrattamenti realizzati dall’imputato, quindi rimarca che l’implausibilità della motivazione addotta a conforto della ritrattazione era già stata evidenziata dalla Corte d’appello con “argomentazioni logiche ma soprattutto, complete”.

In altre parole, il sindacato dei Giudici deve estendersi anche alla verosimiglianza della ritrattazione (ad esempio valutandone la genuinità) che – conseguentemente – non comporta, di per sé sola, un esito processuale favorevole all’imputato.

Quanto alle dichiarazioni rese dai testi indicati dalla difesa, si ribadisce la relativa inattendibilità, anche perché rese da soggetti che non vivevano quotidianamente all’interno del contesto familiare.

Viene altresì disattesa la richiesta di riqualificazione giuridica dei fatti contestati, in conformità al costante orientamento giurisprudenziale, che esclude il minor grave reato invocato dalla difesa (571 c.p.), a fronte di ricorso “sistematico” alla violenza fisica e morale.

Generica viene anche considerata la lagnanza relativa alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.


 

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 21 gennaio – 24 agosto 2020, n. 24027
Presidente Ricciarelli – Relatore Giordano

Ritenuto in fatto

  1. La Corte di appello di Catanzaro ha confermato la condanna, con la contestata recidiva, di Vi. Cu. alla pena di anni quattro di reclusione per il reato di cui all’art. 572 cod. pen., in danno della convivente e dei figli minori.
    A fondamento del giudizio di colpevolezza la Corte ha valorizzato le dichiarazioni rese dalle persone offese dal reato, An. Gi. De Ci. e i figli minori, e dalla madre e sorella della predetta. Nel confermare il giudizio di attendibilità delle dichiarazioni accusatorie la Corte distrettuale si è soffermata, in particolare, sulla circostanza che dopo avere confermato le originarie dichiarazioni accusatorie nei confronti del compagno, nel prosieguo della deposizione An. Gi. De Ci. aveva ritrattato le accuse sostenendo di essersi inventata tutto perché indispettita dal comportamento del compagno che lavorava come pastore tornando a casa la sera maleodorante e che la infastidiva chiedendole di fare commissioni in sua vece e di avere, a questo fine, istruito anche i figli affinchè accusassero il padre.
    2. Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorrente chiede l’annullamento della sentenza perchè inficiata da plurimi vizi di violazione di legge e vizi di motivazione. La Corte distrettuale, appiattendosi sulla motivazione della sentenza di primo grado, non ha correttamente valutato la intervenuta ritrattazione della persona offesa le cui dichiarazioni, possono essere poste a fondamento del giudizio di colpevolezza, solo se sottoposte a rigoroso vaglio critico, ad un riscontro di attendibilità e credibilità e se assistite da riscontri, che, come per gli altri indizi, devono essere apprezzati per gravità, precisione e concordanza. La ritrattazione delle dichiarazioni rese, in prima battuta, dinanzi al Tribunale da parte della persona offesa non è illogica o incredibile ma, tenuto anche conto della provenienza familiare della persona offesa – figlia di una persona di rispetto con trascorsi delinquenziali nella sibaritide – sono le primigenie dichiarazioni ad essere frutto di una pianificazione accusatoria in danno dell’imputato, colpevole, agli occhi della moglie, di avere intrapreso un percorso riabilitativo che lo aveva condotto a vivere all’insegna della legalità, lavorando come pastore e riducendo le proprie capacità economiche e, ancora, sospettato di avere intrapreso una relazione extraconiugale. Mai prima della denuncia che ha occasionato il processo la persona offesa aveva denunciato traversie personali né la sua denuncia è assistita dalla produzione di certificati medici o referti per i maltrattamenti subiti “silenzio” che la persona offesa aveva giustificato, nella denuncia, temendo ripercussioni in suo danno. Con motivazione approssimativa sono state disattese le testimonianza, ex adverso, prodotte dalla difesa. Sotto altro aspetto il ricorrente contesta la qualificazione giuridica, sub specie del reato di cui all’art. 572 cod. pen., delle condotte in danno dei figli sussumibili, dandone per buono il narrato, nella diversa fattispecie di cui all’art. 571 cod. pen. poiché la finalità dell’imputato era quella di impartire una buona educazione oltre alla ritenuta sussistenza del delitto di maltrattamenti in danno del coniuge, difettando la prova dell’abitualità della condotta e del dolo. Infine denuncia vizio di motivazione in punto di diniego delle circostanze attenuanti generiche, avuto riguardo al tempo e luogo del commesso reato, all’intensità del dolo, alla condotta successiva al reato ed ai motivi a delinquere del reo e la mancanza di motivazione, rispetto alla deduzione difensiva relativa allo scostamento dal minimo edittale della pena inflitta in primo grado, del tutto sproporzionata alla gravità in concreto del fatto.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi generici e manifestamente infondati che si risolvono in una inammissibile richiesta di valutazione alternativa, da parte del giudice di legittimità, delle prove dichiarative, a fronte della completa e logica valutazione sviluppata nella sentenza impugnata e del convergente giudizio di attendibilità delle dichiarazioni accusatorie espresso dai giudici del merito nei due gradi di giudizio.
    2. Le conclusioni della sentenza impugnata, scandite da passaggi ineccepibili sul piano logico con riguardo al giudizio di attendibilità delle persone offese, sono anche giuridicamente corrette ove si rifletta che alle dichiarazioni rese dalla persona offesa non si applicano le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. e che le stesse possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone e corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto (Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104). Non rileva, dunque, ai fini del riscontro, che non siano stati allegati referti, a comprova delle aggressioni fisiche subite dalla denunciante e dai figli né la circostanza che la donna, prima della querela del luglio 2012, non avesse mai denunciato il Cu. durante gli anni della loro convivenza.
    3. In particolare, la Corte di merito, ma ancora prima il Tribunale, si sono fatti carico di esaminare il contenuto delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e dai figli minori (queste acquisite in sede di incidente probatorio) e che, in termini convergenti, hanno restituito la prova di un regime di convivenza familiare, funzionale alla sopraffazione dei congiunti, imposto dall’imputato all’intero nucleo familiare ed ispirato alla violenza, espressa con pestaggi e continue minacce ed accompagnata da epiteti ingiuriosi e volgari, situazione, questa, che aveva cagionato alla donna ed ai minori un protratto stato di prostrazione, aggravato dalla circostanza che la predetta non aveva trovato appoggio nel nucleo familiare di origine, che ne aveva sempre avversato la scelta del Cu. come compagno e che, anche quando si era decisa ad abbandonare la casa familiare, non l’aveva appoggiata, temendo ritorsioni del Cu., per il carattere violento e aggressivo dell’uomo.
    4. La sentenza impugnata si è soffermata sulla ritrattazione delle accuse che la teste, dopo la conferma delle prime dichiarazioni, aveva svolto nel dibattimento e ne ha disatteso la valenza favorevole all’imputato soffermandosi sul movente indicato dalla donna a fondamento delle accuse originarie, ritenuto del tutto implausibile, avendo giustificato la scelta di accusare il compagno perché questi, che svolgeva l’attività di pastore, rincasava maleodorante e la costringeva a sbrigare commissioni per lui, giustificazione non credibile non meno di quella offerta dalla difesa dell’imputato a comprova della calunniosità delle accuse, che, cioè, la donna non sopportasse le restrizioni di vita che la scelta del compagno di abbandonare la vita criminale aveva cagionato. La Corte di merito, a questo riguardo, ha evidenziato come, in tal caso, la donna si sarebbe limitata a lasciare il compagno senza necessariamente ricorrere alla denuncia penale e senza timori di rappresaglie, appartenendo a famiglia nota nella criminalità locale. Si tratta di argomentazioni logiche ma soprattutto, complete perché approfondite sulla scorta di una complessiva valutazione della dinamica dei rapporti personali e familiari che avevano visto la denunciante completamente sola rispetto alla scelta di denunciare l’ex compagno ed alle minacce che questi era solito rivolgerle per impedirle di denunciarlo, già durante la convivenza. Parimenti la Corte ha ritenuto inattendibili le dichiarazioni rese da testimoni indotti dall’imputato (che non potevano avere piena cognizione delle reali ed effettive dinamiche del rapporto familiare).
    5. Il regime di vita imposto dall’imputato alla denunciante ed ai figli minori, ben compendiato nel capo di imputazione nel quale sono enucleati aggressioni fisiche, con botte anche a mezzo di arnesi quali fruste e tubo delle capre, minacce di morte, ingiurie ed improperi, integra, per la ricorrenza delle condotte abusanti e lo stato di prostrazione che ne era derivato alla compagna ed ai figli minori, di otto e nove anni al momento della denuncia, il reato di maltrattamenti. Questo è ravvisabile in presenza del compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato e nel caso in esame, peraltro, protrattisi per anni e ai danni dell’intero nucleo familiare, non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell’agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo.
    6. Con riguardo al reato di maltrattamenti in danno dei figli minori non esiste alcuno spazio per la configurabilità del reato di abuso dei mezzi di correzione, a fronte di reiterate e conclamate condotte violente, fra le quali appare emblematica quella che, in un’occasione. l’imputato aveva legato una corda intorno al collo del figlio, strattonandolo come fosse un cane, e minacciando di uccidere, legandole una corda al collo, la compagna che difendeva il bambino. La Corte di merito, ha evidenziato che non possono essere considerate come aventi finalità educative condotte vessatorie, umilianti e violente facendo corretta applicazione dei principi dettati da questa Corte secondo i quali, nel caso di uso sistematico di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del minore affidato, anche se sorretto da “animus corrigendi”, deve escludersi la configurabilità del meno grave delitto previsto dall’art. 571 cod. pen. (Sez. 3, Sentenza n. 17810 del 06/11/2018, dep. 2019, B., Rv. 275701; Sez. 6, n. 36564 del 10/05/2012, C, Rv. 253463).
    7. Il riferimento contenuto nella sentenza impugnata alla gravità e reiterazione delle condotte illecite costituisce motivazione adeguata a giustificazione dell’entità della pena inflitta, in misura superiore al minimo edittale, dal momento che il giudice del merito non è tenuto a valorizzare ogni e qualsiasi elemento fra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., poiché è sufficiente, ai fini del legittimo e motivato esercizio del potere sanzionatorio, che dia conto delle ragioni della prevalenza di uno degli elementi che rinviano alla condotta ed al contributo soggettivo dell’agente.
    8. A fronte della descrizione della condotta illecita, protratta nel tempo e sostenuta da dolo abituale che si estrinseca nella persistente consapevolezza di persistere in un’attività vessatoria, e dell’indole violenta dell’imputato valorizzata dalla Corte di merito, si rivelano generiche le argomentazioni difensive sul diniego di applicazione delle circostanze attenuanti generiche che, nella prospettazione difensiva, sarebbero state giustificate dal tempo e luogo del commesso reato, dalla intensità del dolo, dalla condotta successiva al reato e dai motivi a delinquere, criteri all’evidenza del tutto vaghi ed indeterminati con riferimento alla tipologia di reato ed alle caratteristiche soggettive delle vittime del reato.
    9. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, essendogli imputabile la colpa nella proposizione di siffatto ricorso, al versamento della somma indicata in dispositivo in favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000.00 in favore della cassa delle ammende.