“L’uso indebito del marchio CE non integra l’ipotesi criminosa di cui all’art. 474 c.p., che fa riferimento al marchio, inteso come elemento (segno o logo) idoneo a distinguere il singolo prodotto industriale rispetto ad altri (art. 2569 c.c. e R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 1 e successive modifiche), e non al marchio, rectius attestazione o marcatura, inteso come elemento che serve ad attestare la conformità del prodotto appartenente ad una determinata tipologia o a normative specifiche.”
Lo afferma la Cassazione con la sentenza 30026/2021 (posi ta del 30 luglio 2021), evidenziando la diversità ontologica e funzionale tra il marchio ed il marchio CE.
Infatti, il primo consente “di distinguere un prodotto dall’altro che, come tale, giustifica il monopolio di un segno e l’esclusività dell’uso”, mentre il secondo si pone a garanzia di “interessi pubblici, come la salute e la sicurezza degli utilizzatori dei prodotti, appartenenti ad una determinata tipologia, assicurando che essi siano conformi a tutte le disposizioni comunitarie che prevedono il loro utilizzo, così che la marcatura CE non funge da marchio di qualità o d’origine, ma costituisce un puro marchio amministrativo, che segnala che il prodotto marcato può circolare liberamente nel mercato unico dell’UE.”.
Ne consegue l’inapplicabilità dell’art. 474 cp (appunto concernente “prodotti industriali con marchi o altri segni distintivi nazionali o esteri, contraffatti o alterati”) e la sussumibilità nell’alveo del meno grave reato di cui all’art. 515 cp, nella sua forma tentata o consumata.
Cass. pen., sez. II, ud. 25 maggio 2021 (dep. 30 luglio 2021), n. 30026
Presidente Diotallevi – Relatore Monaco
Ritenuto in fatto
La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza in data 14/1/2020 ha confermato la sentenza pronunciata dal TRIBUNALE di PALERMO il 19/11/2018, nei confronti di I.N. per i reati di cui all’art. 474 c.p. e art. 648 c.p., comma 2 e D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 112. 1. I.N. è stato rinviato a giudizio per i reati di commercio di prodotti con segni contraffatti, ricettazione e per avere immesso sul mercato prodotti pericolosi in quanto privi del marchio CE. All’esito del giudizio di primo grado l’imputato, riconosciuta l’ipotesi di cui all’art. 648 c.p., comma 2 è stato condannato con sentenza che la Corte d’appello ha confermato. 1. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l’imputato che, a mezzo del difensore, ha dedotto i seguenti motivi. 1.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla dichiarazione di responsabilità in relazione alla ritenuta sussistenza del reato con riferimento alla contraffazione dell’indicazione CE, che non costituirebbe marchio, e di conseguenza il reato contestato non sussisterebbe ovvero il fatto avrebbe dovuto essere qualificato ai sensi degli artt. 56 e 515 c.p.. 1.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 112, comma 2. 1.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. 2. In data 7 maggio 2021 sono pervenute in cancelleria le conclusioni scritte con le quali il Procuratore Generale, in Persona del Sost. Proc. Dott. Ettore Pedicini, chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
Considerato in diritto
Il ricorso è fondato nei termini che seguono. 1. Nel primo motivo la difesa deduce la violazione di legge quanto alla qualificazione giuridica del reato di cui al capo a), la detenzione per la vendita di prodotti con marchio contraffatto. La doglianza è fondata. Il c.d marchio CE è un’attestazione che garantisce al consumatore la conformità di alcune categorie di prodotti agli standard di qualità e sicurezza Europei, cioè a tutte le disposizioni dell’Unione Europea che prevedono il suo utilizzo dalla progettazione, alla fabbricazione, all’immissione sul mercato, alla messa in servizio e fino allo smaltimento. Sotto tale profilo, quindi, l’uso indebito del marchio CE non integra l’ipotesi criminosa di cui all’art. 474 c.p., che fa riferimento al marchio, inteso come elemento (segno o logo) idoneo a distinguere il singolo prodotto industriale rispetto ad altri (art. 2569 c.c. e R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 1 e successive modifiche), e non al marchio, rectius attestazione o marcatura, inteso come elemento che serve ad attestare la conformità del prodotto appartenente ad una determinata tipologia o a normative specifiche. Ciò in quanto la ragione di tutela del marchio consiste nella capacità di questo di distinguere un prodotto dall’altro che, come tale, giustifica il monopolio di un segno e l’esclusività dell’uso, mentre la funzione del marchio “CE” è quella di tutelare interessi pubblici, come la salute e la sicurezza degli utilizzatori dei prodotti, appartenenti ad una determinata tipologia, assicurando che essi siano conformi a tutte le disposizioni comunitarie che prevedono il loro utilizzo, così che la marcatura CE non funge da marchio di qualità o d’origine, ma costituisce un puro marchio amministrativo, che segnala che il prodotto marcato può circolare liberamente nel mercato unico dell’UE. (testualmente Sez. 2, n. 36228 del 18/8/2009, Wang, n. m.). In tali ipotesi situazione, pertanto, l’apposizione del marchio contraffatto CE sui beni venduti -proprio perché questo garantisce la sussistenza dei requisiti aprioristicamente standardizzati dalla normativa comunitaria, che possono essere scelti dall’acquirente in ragione della loro origine e provenienza controllata alla fonte- configura il reato di frode in commercio ovvero, nel caso in cui il bene non sia stato ancora consegnato al consumatore, il reato di tentativo di frode in commercio (Sez. 3, n. 17686 del 14/12/2018, dep. 2019 Lia, Rv. 275932; Sez. 3, n. 33397 del 20/6/2018, Feng, n. m.). 2. Tanto premesso nel caso di specie, nel quale il ricorrente ha posto in vendita beni con la marcatura CE contraffatta, il reato di cui al capo A) deve essere qualificato come tentativo di frode in commercio. 3. Nel primo motivo la difesa rileva altresì la carenza di motivazione quanto alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato di ricettazione. La doglianza, relativa a una questione che non era stata oggetto di motivo di appello, è comunque infondata. Come evidenziato dalla costante e pacifica giurisprudenza di legittimità sul punto, infatti, la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede (cfr. Sez. 2, n. 20193 del 19/04/2017, Kebe, RV. 270120; n. 53017 del 22/11/2016, Alotta, RV. 268713; n. 29198 del 25/05/2010, Fontanella, Rv. 248265) In tal modo, d’altro canto, non si richiede all’imputato di provare la provenienza del possesso delle cose, ma soltanto di fornire un’attendibile spiegazione dell’origine del possesso delle cose medesime, assolvendo non a un onere probatorio, bensì a un onere di allegazione di elementi, che potrebbero costituire l’indicazione di un tema di prova per le parti e per i poteri officiosi del giudice, e che comunque possano essere valutati da parte del giudice di merito secondo i comuni principi del libero convincimento (in tal senso, Sez. U, n. 35535 del 12/07/2007, Ruggiero, Rv. 236914). 3. Nel secondo motivo la difesa deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al reato di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 112, comma 2. La doglianza non è consentita ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3. La questione relativa alla sussistenza o meno del reato di immissione in commercio di prodotti pericolosi in quanto privi del marchio CE, infatti, non aveva costituito oggetto di appello (cfr. atto di appello e/o riepilogo dei motivi di gravame contenuto nella sentenza impugnata che il ricorrente non contesta). 4. Nel terzo motivo la difesa deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. La doglianza è manifestamente infondata. La sentenza impugnata, con riferimento alla misura della pena inflitta all’imputato, contenuta – per altro – entro limiti prossimi al minimo edittale, fa buon governo della legge penale e dà conto delle ragioni che hanno guidato, nel rispetto del principio di proporzionalità, l’esercizio del potere discrezionale ex artt. 132 e 133 c.p. della Corte di merito, e ciò anche in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto, quanto a quest’ultimo aspetto, gravità dei fatti, sintomatici di una pericolosità “commerciale” dell’imputato. Le generiche censure mosse a tale percorso argomentativo, assolutamente lineare, sono meramente assertive, inconsistenti e, in parte, orientate anche a sollecitare, in questa sede, una nuova e non consentita valutazione della congruità della pena (Sez. Un. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Rv. 266818). La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’art. 62-bis c.p., d’altro canto, è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, RV. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, RV. 248244; n. 42688 del 24/09/ 2008, Caridi, RV 242419). Il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale deve quindi motivare nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Pertanto, il diniego delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente fondato anche sull’apprezzamento di un solo dato negativo, oggettivo o soggettivo, che sia ritenuto prevalente rispetto ad altri, disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, RV. 265826; n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, RV. 249163; Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, RV. 248737). 5. In conseguenza della diversa qualificazione giuridica riconosciuta al reato di cui al capo A), considerato il diverso limite edittale e tenuto conto dei criteri utilizzati dai giudici di merito, la pena per lo stesso, da applicarsi in continuazione, può essere quantificata, ai sensi dell’art. 620 c.p.p., lett. l, in Euro 200 di multa così che la pena finale può essere complessivamente rideterminata in mesi sette ed Euro 500,00 (pena base per il reato sub b) mesi sei e 200 Euro di multa, aumento per la continuazione per il reato sub C) mesi 1 ed Euro 100, aumento per il reato sub A) Euro 200,00 di multa).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al capo A) che riqualifica ai sensi degli artt. 56 e 515 c.p.. Rigetta nel resto il ricorso e ridetermina la pena complessiva in mesi sette di reclusione ed Euro cinquecento di multa.