La Corte di Cassazione, sez. III Penale, con sentenza n. 29578, depositata ieri 26 ottobre 2020 si è occupata di una vicenda di scottante attualità: costituisce frode in commercio (art. 515 cp) la vendita di mascherine prive di marchio CE? Sussiste il tentativo, in caso di loro messa in vendita? Il Tribunale del riesame aveva confermato il sequestro (preventivo e probatorio) di oltre 25.000 mascherine “utilizzabili per il contenimento della diffusione del coronavirus”, ritenendo corrette le provvisorie imputazioni, appena sopra indicate. La Cassazione ha invece ritenuto errata tale valutazione, evidenziando che non ogni cessione di mascherine da viso, pur prive di certificazione attestante l’osservanza delle norme anti Covid-19, integri i detti  reati. L’art. 515 cp, infatti, assoggetta a sanzione penale la cessione di beni difformi – per origine, provenienza, qualità o quantità – rispetto a quelli dichiarati o concordati. Nella vicenda in esame, di contro, gli indagati non avevano mai indicato dette mascherine quale presidii medici per la prevenzione del contagio da Covid-19 ed era, al riguardo, significativa la circostanza che molte di esse erano state rinvenute all’interno di una ferramenta. All’accoglimento del ricorso consegue l’annullamento dell’impugnata  ordinanza ed il  rinvio al Tribunale del riesame, per un nuovo giudizio.


Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 22 settembre – 26 ottobre 2020, n. 29578
Presidente Ramacci – Relatore Gentili

Ritenuto in fatto

Il Tribunale di Genova, con ordinanza del 3 giugno 2020, rigettata la richiesta di riesame proposta da M.M. e B.P. , ha confermato il provvedimento di sequestro probatorio e preventivo emesso a carico dei medesimi, eseguito in via di urgenza dalla Pg in data 5 maggio 2020, convalidato dal Pm presso il Tribunale di Genova in data 6 maggio 20230 quanto al sequestro probatorio e dal Gip del medesimo Tribunale quanto al sequestro preventivo in data 9 maggio 2020, avente ad oggetto circa 25.900 mascherine, appartenenti a diverse tipologie commerciali, utilizzabili per il contenimento della diffusione del coronavirus, da questi in parte fornite ad un dettagliante ed in parte ancora detenute presso i loro magazzini commerciali, essendo stata prospettata a carico dei due predetti la imputazione provvisoria relativa alla violazione, sia nella forma tentata che in quella consumata, dell’art. 515 c.p., in quanto le predette mascherine non erano corredate da una corretta certificazione recante il marchio CE.
Avverso la ordinanza in questione hanno interposto ricorso per cassazione i due indagati i quali hanno lamentato, in prima battuta, la violazione dell’art. 309 c.p.p., in quanto il decreto di convalida del sequestro sarebbe stato privo di un’autonoma valutazione da parte del Gip quanto alla sussistenza del fumus commissi delicti, essendosi egli limitato a fare proprie le argomentazioni del Pm, il quale a sua volta si è rifatto a quanto osservato dalla polizia giudiziaria.
In via ulteriore, rispetto a tale doglianza, i ricorrenti hanno lamentato la stessa ricorrenza del fumus delicti, posto che i ricorrenti si sarebbero limitati a porre in vendita i beni oggetto di sequestro senza modificare in nulla la documentazione con la quale gli stessi erano stati importati dall’estero.
Ritengono i due ricorrenti che, diversamente da quanto osservato dal Tribunale i prodotti oggetto della misura non erano qualificabili nè come dispositivi medicali nè come mascherine chirurgiche nè, infine, come dispositivi di protezione individuale ma, semplicemente, come mascherine della collettività, sicché le stesse non erano soggette alla presenza dei requisiti indicati dal Tribunale, la cui mancanza, secondo l’avviso dell’organo giudicante, unitamente alla loro messa in vendita, integrerebbe gli estremi degli illeciti in provvisoria contestazione.

Considerato in diritto

Il ricorso, risultato fondato, deve, pertanto, essere accolto.
Secondo quanto testualmente rilevato nella ordinanza impugnata dal Tribunale genovese, a carico dei due attuali ricorrenti è stata mossa, sia pure in via ancora provvisoria, la imputazione avente ad oggetto la violazione dell’art. 515 c.p., il quale sanzione la condotta di chi, nell’esercizio di un’attività commerciale (…), consegna all’acquirente (…) una cosa mobile per origine, provenienza, qualità o quantità diversa da quella dichiarata o pattuita.
Nel caso in esame è risultato che, in qualità di titolari della Y.U.N.I.X. Srl (d’ora in poi per brevità Y.) i due indagati avevano fornito ad un esercizio commerciale sito in […], in provincia di Genova, una serie di mascherine, definite nella ordinanza “chirurgiche”, prive delle opportune certificazioni relative al rispetto della normativa che disciplina la vendita di tali beni, adottata nell’ambito della emergenza epidemiologica da Covid-19.
Ulteriori indagini, condotte dalla Guardia di Finanza, avevano condotto a verificare che presso i magazzini della predetta Y. erano stoccate anche numerose altre mascherine che, sebbene aventi fra loro diverse tipologie, erano tutte prive delle predette certificazioni.
Da qui la adozione della misura cautelare reale a carico dei due indagati.
Ciò premesso, si rileva che il primo motivo di impugnazione è manifestamente infondato, posto che, diversamente da quanto ritenuto da parte dei ricorrenti, con il provvedimento impugnato, caratterizzato da un’ampia ed esauriente motivazione, il Tribunale non si è limitato ad affermare la legittimità della motivazione del provvedimento di convalida adottato dal Gip di Genova, secondo i ricorrenti, aderendo, senza un’autonoma valutazione, agli argomenti svolti dal Pm in sede di richiesta di convalida, ma ha ampiamente illustrato le ragioni per le quali ha inteso rigettare la impugnazione formulata in sede di riesame dai due attuali ricorrenti.
Posto che, pertanto, il Tribunale del riesame ha, in ogni caso, provveduto, facendo uso dei poteri ad esso spettanti, ad integrare la motivazione con la quale era stata adottata la convalida del sequestro preventivo da parte del Gip, la doglianza proposta in via primaria dai due ricorrenti non ha pregio (sul potere-dovere del Tribunale del riesame di integrare, se del caso, il provvedimento cautelare sottoposto alla sua attenzione, cfr.: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 8 marzo 2018, n. 10590).
Passando, a questo punto, ad esaminare il secondo motivo di ricorso, afferente alla insussistenza degli elementi idonei a giustificare l’adozione della misura cautelare in danno dei due ricorrenti, rileva la Corte che le ragioni di doglienza da costoro mosse sono fondate.
La Corte, infatti, rileva che gli elementi ricavabili dal testo della ordinanza impugnata a carico dei due indagati sono quelli dianzi descritti e puntualmente dal Tribunale del riesame.
Osserva a questo punto, il Collegio che, per costante giurisprudenza di questa Corte, onde pervenire alla adozione di una misura del tipo di quella ora in questione, sebbene non sia necessaria la dimostrata ricorrenza in capo ai soggetti indagati di “gravi indizi di colpevolezza”, elemento necessario laddove fosse stata adottata una misura di carattere non reale ma personale, è, tuttavia, comunque indispensabile che ricorrano elementi per potere affermare che siano astrattamente ravvisabili gli estremi della commissione di un fatto costituente illecito penale.
Come, infatti, questa Corte ha in numerose occasioni affermato, in tema di sequestro preventivo, non è necessario valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire la astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto contestato (Corte di cassazione, Sezione 1 penale, 27 aprile 2018, n. 18491; idem Sezione 2 penale, 5 febbraio 2014, n. 5656).
Ritiene il Collegio che nel caso di specie siffatta sussumibilità della fattispecie concreta in una ipotesi di reato, sia frutto, allo stato degli elementi evidenziati nella ordinanza de qua di una sorta di petizione di principio di cui appare essere risultato vittima il Tribunale di Genova, cioè che la avvenuta cessione di qualsivoglia tipologia di mascherine da apporre di fronte al viso al fine di evitare la emissione di particelle di saliva nell’atto del respirare e del parlare o comunque di schermare gli organi periferici della respirazione, laddove siffatti oggetti non abbiano la certificazione della regolarità rispetto alla normativa anti Covid-19 integri l’astratta qualificabilità della condotta in tal modo posta in essere come violazione dell’art. 515 c.p..
Ritiene questa Corte che siffatta opinione – che, ridondando sulla qualificazione di un fatto come illecito penale, costituisce, ove errata, un errore di diritto, come tale censurabile di fronte a questa Corte in sede di impugnazione dei provvedimenti emessi in relazione a misura cautelari reali, ai sensi dell’art. 325 c.p.p., – non possa essere seguita nella rigida applicazione che parrebbe averne fatto il Tribunale di Genova.
Deve, infatti, rilevarsi che, come dianzi osservato, l’art. 515 c.p., sanziona penalmente la avvenuta cessione di beni laddove questi siano diversi, per origine, provenienza, qualità o quantità, rispetto ai beni dichiarati o pattuiti.
Ora, quanto al caso di specie, il Tribunale non ha fornito elemento alcuno per poter rilevare il fatto che la Y. abbia mai provveduto alla vendita i beni oggetto di sequestro avendo preventivamente dichiarato che gli stessi costituissero presidi medici ai fini della prevenzione del contagio da Covid-19, unica condizione questa che, imponendo le certificazioni di cui sopra a comprova delle qualità rivestite dalle mascherine in questione, sarebbe stata necessaria ed idonea, in assenza delle certificazioni di cui sopra, a far ritenere astrattamente integrato il reato in provvisoria contestazione.
Al riguardo appare, anzi, assai significativo che le indagini in questione hanno preso le mosse dall’avvenuto rinvenimento presso un esercizio commerciale denominato “Ferramenta F.lli Z. di Z.L. ” di una partita di mascherine importate dalla Y. e cedute al citato dettagliante per la loro messa in vendita al minuto, apparendo costituire circostanza singolare, e certamente meritevole di un qualche approfondimento argomentativo, il fatto che le predette mascherine, costituenti in ipotesi un presidio medico (posto che diversamente non avrebbero necessitato delle certificazioni mancanti), fossero commerciate non presso una farmacia o comunque un negozio di prodotti sanitari ma presso un negozio che vendeva le ferramenta.
Il ricorso proposto deve, pertanto, essere accolto e la ordinanza impugnata va annullata con rinvio al Tribunale di Genova, Sezione del riesame, per un nuovo giudizio.

P.Q.M.

Annulla la ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Genova, competente ai sensi dell’art. 324 c.p.p., comma 5.