Con sentenza 25578/20, depositata ieri 9/9/2020 (in calce) la Cassazione conferma l’orientamento giurisprudenziale, assolutamente granitico, secondo il quale sussiste  il delitto di ricettazione laddove venga accertata l’ingiustificata disponibilità di un cellulare, «acquisita fuori dai canali ordinari e legittimi di circolazione», in assenza di una plausibile giustificazione in merito.

In particolare, si ribadisce che il detto reato possa essere sorretto da dolo eventuale, ove venga accettato  il rischio dell’illecita provenienza della res.

Sussiste invece la contravvenzione dell’acquisto di cose di sospetta provenienza, laddove vi sia semplice negligenza nel relativo accertamento.

Nella vicenda sottoposta al vaglio delle Suprema Corte, l’imputata non aveva fornito alcuna credibile spiegazione  circa la lecita provenienza di detto cellulare, con conseguente desumibilità  di un acquisto ” fuori dai canali ufficiali di commercializzazione… certamente sintomatico del dolo … quanto meno eventuale… di ricettazione”.


Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 14 luglio – 9 settembre 2020, n. 25578
Presidente Rago – Relatore Pardo

Ritenuto in fatto

1.1 Con sentenza in data 16 novembre 2018, la corte di appello di Firenze, confermava la pronuncia del tribunale di Firenze del 10-07-2014 che aveva condannato alle pene di legge La. Ve. in quanto ritenuta responsabile del delitto di ricettazione di un telefono cellulare.
1.2 Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputata deducendo con distinti motivi:
– violazione dell’art. 606 lett. b) e c) cod. proc. pen. quanto alla valutazione delle prove poiché il giudice di appello aveva fondato l’affermazione di responsabilità sulla mancata allegazione da parte dell’imputata di fatti a sua discolpa senza però che il silenzio serbato sulle modalità di ricezione del bene potesse qualificarsi prova diretta della colpevolezza, potendo anche rispondere ad una strategia difensiva con conseguente violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. e comunque sussistendo un ragionevole dubbio;
– violazione dell’art. 606 lett. b) e c) cod. proc. pen. per inosservanza della legge penale a seguito della mancanza di motivazione sui motivi di appello proposti con i quali si era evidenziata la difformità tra le richieste formulate dalla difesa all’udienza del 10 luglio 2014 di conclusioni del giudizio di primo grado e quanto riportato in epigrafe, con conseguente lesione del diritto di difesa;
– violazione dell’art. 606 lett. c) cod. proc. pen. per motivazione incompleta in ordine ai motivi di appello proposti e pretermessi.

Considerato in diritto

2.1 II ricorso è proposto per motivi manifestamente infondati ovvero genericamente esposti e deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.
Quanto al primo motivo la responsabilità per il delitto di ricettazione risulta affermata tenuto conto dell’accertata, e mai convincentemente giustificata, disponibilità del telefonino di provenienza furtiva in oggetto (all’evidenza acquisita fuori dai canali ordinari e legittimi di circolazione). In tal modo, la Corte di appello si è correttamente conformata – quanto alla qualificazione giuridica del fatto accertato – al consolidato orientamento di questa Corte (per tutte, Sez. 2, n. 29198 del 25/05/ 2010, Rv. 248265), per il quale, ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede; d’altro canto (Sez. 2, n. 45256 del 22/11/2007, Lapertosa, Rv. 238515), ricorre il dolo di ricettazione nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l’ipotesi contravvenzionale dell’acquisto di cose di sospetta provenienza. Né si richiede all’imputato di provare la provenienza del possesso delle cose, ma soltanto di fornire una attendibile spiegazione dell’origine del possesso delle cose medesime, assolvendo non ad onere probatorio, bensì ad un onere di allegazione di elementi, che potrebbero costituire l’indicazione di un tema di prova per le parti e per i poteri officiosi del giudice, e che comunque possano essere valutati da parte del giudice di merito secondo i comuni principi del libero convincimento (in tal senso, Cass. pen., Sez. un., n. 35535 del 12/07/2007, Rv. 236914). E, nel caso di specie, l’acquisto di un telefono cellulare fuori dai canali ufficiali di commercializzazione, è certamente sintomatico del dolo (quanto meno eventuale: Sez. un., n. 12433 del 26/11/2009, 30/03/2010, Rv. 246324) di ricettazione.
2.2 Quanto al secondo e terzo motivo, secondo il costante orientamento di questa corte di cassazione l’omessa indicazione, in sentenza, delle conclusioni delle parti – requisito formalmente richiesto dall’art. 546 cod. proc. pen. – non ne determina la nullità, non essendo quest’ultima prevista espressamente da alcuna norma di legge, né lede in alcun modo i diritti della difesa, sicché non può farsi rientrare neanche tra le nullità di ordine generale (Sez. 1, n. 39447 del 04/10/2007, Rv. 237736); l’applicazione del sopra esposto principio comporta dichiarare la manifesta non fondatezza del motivo proposto poiché la sola difformità tra le conclusioni assunte dalla difesa all’udienza di discussione della causa in primo grado e quelle riportate nella pronuncia del tribunale di Firenze non comporta alcuna nullità nell’assenza evidente di qualsiasi disposizione che tale precisa sanzione stabilisca ed in virtù del generale principio di tassatività della nullità.
Palesemente generico appare il terzo motivo poiché non viene in alcun modo indicata quale precisa ragione di doglianza la corte di appello avrebbe dovuto esaminare né tanto meno quale decisività ai fini della decisione il motivo pretermesso avrebbe avuto.
In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell’art. 606 comma terzo cod. proc. pen.; alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 2.000,00.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.