Con sentenza 24617/2020, depositata oggi 1/9/2020 (riportata in calce), la Seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “”integra il reato di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario con violenza o minaccia alle persone, la condotta di chi reclami la soddisfazione di un presunto diritto ponendo in essere condotte violente o minacciose in danno (anche) di soggetti terzi, estranei al rapporto obbligatorio dal quale scaturisce, nella prospettiva dell’agente, il diritto vantato”.
Alla base della vicenda v’era la legittima richiesta di un legale di ottenere il saldo dei propri compensi professionali relativamente ad attività professionale svolta, alla quale si contrapponeva l’illegittima pretesa dell’imputato di conseguire, in assenza di alcun titolo giustificativo, vantaggi economici nei confronti della moglie e del figlio del detto legale, chiaramente estranei al rapporto tra quest’ultimo e l’imputato.
In primo grado questi veniva condannato per estorsione, ma la Corte d’appello riqualificava poi il reato in quello meno grave di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, dichiarandolo improcedibile per mancanza di querela.
A seguito del tempestivo ricorso del Procuratore Generale, la Cassazione ribadisce che l’elemento distintivo tra i due reati è ravvisabile nella “astratta azionabilità della pretesa vantata dall’agente nei confronti della p.o., poiché il solo reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (non anche l’estorsione) è commesso da chi, “al fine di esercitare un preteso diritto”, e “potendo ricorrere al giudice”, “si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone”.
Di contro, “integra sempre gli estremi dell’estorsione, la condotta consistente in minacce o violenza all’indirizzo di prossimi congiunti del debitore, senz’altro estranei al rapporto obbligatorio inter partes asseritamente azionato dall’agente, la cui pretesa di rivalersi in danno di terzi non sarebbe giudizialmente coltivabile.”.
Alla luce dei suddetti principi il supremo Collegio, rilevata l’estraneità dei congiunti dell’avvocato al rapporto professionale tra quest’ultimo e l’imputato, evidenzia come alcuna pretesa sarebbe stata giudizialmente azionabile nei loro confronti, con conseguente sussistenza del più grave reato di estorsione.
Ne consegue l ‘annullamento dell’impugnata sentenza ed il rinvio ad altra sezione della Corte d’appello, per un nuovo giudizio.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 2 luglio – 1° settembre 2020, n. 24617
Presidente Gallo – Relatore Beltrani
Ritenuto in fatto
Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli ha proposto, tempestivamente e nei modi di rito, ricorso contro la sentenza indicata in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza emessa in data 6/6/2017 dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere, riqualificati i fatti contestati a FI. AN. (inizialmente qualificati come estorsione) ai sensi dell’art. 393 c.p., ha dichiarato non doversi procedere per difetto di querela.
Considerato in diritto
La sentenza impugnata va annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio.
1. Il ricorrente lamenta violazione degli artt. 393 e 629 c.p., perché la condotta accertata integrerebbe il reato di estorsione, non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
1.1. Il motivo è fondato.
Il fondamentale elemento atto a distinguere i due reati, che assume rilievo decisivo nel caso in esame, è dato dall’astratta azionabilità della pretesa vantata dall’agente nei confronti della p.o., poiché il solo reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (non anche l’estorsione) è commesso da chi, “al fine di esercitare un preteso diritto”, e “potendo ricorrere al giudice”, “si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone”.
Questa Corte (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Rv. 268361) ha già chiarito che, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria: occorre, in particolare, che l’autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale, anche se detto diritto non sia realmente esistente, e tale pretesa deve, inoltre, corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non mirare ad ottenere un qualsiasi quid pluris, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato; nel delitto di estorsione, al contrario, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia.
Si è, pertanto, già ritenuto (Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, Rv. 260344) che integra sempre gli estremi dell’estorsione, la condotta consistente in minacce o violenza all’indirizzo di prossimi congiunti del debitore, senz’altro estranei al rapporto obbligatorio inter partes asseritamente azionato dall’agente, la cui pretesa di rivalersi in danno di terzi non sarebbe giudizialmente coltivabile.
1.2. Ciò premesso, la Corte di appello non ha adeguatamente considerato il fatto, incontrovertibilmente accertato, e del quale essa stessa dà atto (cfr. f. 6 ss. della sentenza impugnata) che la pretesa azionata dall’imputato riguardava l’entità dei compensi per prestazioni professionali reclamati dall’avv. AL. D’AN., e rispetto a tale rapporto obbligatorio la moglie ed il figlio del D’AN. (pure destinatari delle condotte illecite in contestazione) erano del tutto estranei; la richiesta di ottenere, per la predetta causale, vantaggio patrimoniali diretti a discapito della moglie e del figlio del D’AN., terzi estranei, non sarebbe stata, pertanto, in alcun modo coltivabile in giudizio.
Di qui, l’integrazione del reato di estorsione.
1.3. La sentenza impugnata va, quindi, annullata limitatamente alla statuizione in punto di sospensione condizionale della pena, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli, che si conformerà al seguente principio di diritto:
“integra il reato di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario con violenza o minaccia alle persone, la condotta di chi reclami la soddisfazione di un presunto diritto ponendo in essere condotte violente o minacciose in danno (anche) di soggetti terzi, estranei al rapporto obbligatorio dal quale scaturisce, nella prospettiva dell’agente, il diritto vantato”.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.