Si riporta il testo della sentenza 162/2024, depositata ieri, con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), limitatamente alle parole «se esso si è protratto per almeno due anni».
Corte Costituzionale|Sentenza|17 ottobre 2024| n. 162
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici: Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), promosso dal Tribunale ordinario di Oristano, sezione unica penale, nel procedimento penale a carico di P.L. S. con ordinanza del 14 dicembre 2022, iscritta al n. 22 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2024.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2024 il Giudice relatore Francesco Viganò;
deliberato nella camera di consiglio del 24 settembre 2024.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 14 dicembre 2022, il Tribunale ordinario di Oristano, sezione unica penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede che, in caso di sospensione dell’esecuzione della sorveglianza speciale durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto a detenzione per esecuzione di pena, il tribunale verifica la persistenza della sua pericolosità sociale soltanto ove lo stato di detenzione si sia protratto per almeno due anni.
1.1.- Il rimettente è chiamato a decidere, in sede di giudizio abbreviato, sulla responsabilità penale di P.L. S., sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, per plurime violazioni dell’art. 75, comma 1, cod. antimafia, per aver trasgredito, in cinque distinte occasioni tra il dicembre 2019 e il marzo 2020, la prescrizione di non allontanarsi dalla propria abitazione nelle ore notturne.
P.L. S. era sottoposto alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per la durata di un anno in forza di un decreto applicativo del 25 gennaio 2018, che gli era stato notificato il 5 febbraio 2018. L’esecuzione del provvedimento era tuttavia rimasta sin dall’inizio sospesa, essendo l’interessato detenuto per esecuzione pena in forza di ordine di esecuzione del 17 gennaio 2018. La sorveglianza speciale era quindi divenuta esecutiva soltanto quando l’interessato era stato scarcerato, il 23 aprile 2019.
1.2.- In ordine alla rilevanza delle questioni prospettate, il rimettente osserva che, qualora le stesse fossero accolte, «dovrebbe trovare retroattivamente applicazione la disciplina che attualmente impone (analogamente a quanto previsto per le misure di sicurezza) la rivalutazione ex officio da parte del Tribunale […] della pericolosità sociale del destinatario della sorveglianza speciale di P.S. preliminarmente all’esecuzione della misura disposta». Nel caso concreto, dunque, non essendo stata effettuata tale rivalutazione d’ufficio, «la sospensione dell’esecuzione della misura di prevenzione non potrebbe dirsi cessata in maniera automatica per il solo cessare dell’esecuzione della pena detentiva – mediante mera notifica del provvedimento applicativo originario -, ma si dovrebbe ritenere persistente fino a quando il giudice competente non proceda a verificare nuovamente la pericolosità sociale della persona sottoposta alla misura [:] solo il rispetto di tale iter costituirebbe condizione di efficacia della misura di prevenzione». Ciò tanto più in un caso come quello oggetto del procedimento a quo, in cui «non solo la misura di prevenzione era stata disposta per la durata di un solo anno (già interamente decorso nel momento in cui la misura ha trovato differita esecuzione), ma [P.L.] S. aveva altresì beneficiato – nel corso della carcerazione medio tempore subita – della liberazione anticipata e di permessi premio con provvedimenti attestanti la partecipazione all’opera rieducativa e la correttezza della condotta intramuraria».
Conseguentemente, in caso di accoglimento delle questioni non potrebbe affermarsi la responsabilità penale dell’imputato per le violazioni contestategli, sulla base dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla impossibilità di ritenere configurato il delitto in parola laddove non sia stata compiuta la prescritta rivalutazione della pericolosità sociale dopo la sospensione dell’esecuzione della sorveglianza speciale per effetto dello stato di detenzione per esecuzione di pena dell’interessato (è citata Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 21 giugno-13 novembre 2018, n. 51407).
1.3.- In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente rammenta anzitutto come la disposizione censurata sia stata introdotta in seguito alla sentenza n. 291 del 2013 di questa Corte, che aveva ritenuto incompatibile con la Costituzione una presunzione di persistenza della pericolosità sociale del destinatario della misura di prevenzione, laddove quest’ultima fosse stata sospesa durante la sua detenzione per esecuzione di pena.
I principi espressi in quella pronuncia sarebbero stati, inoltre, confermati dalla recente giurisprudenza di legittimità, che tenderebbe a una «sempre più evidente valorizzazione del requisito dell’attualità della pericolosità sociale al momento dell’applicazione di misure di prevenzione restrittive della libertà personale, giungendosi per tale via al progressivo superamento di presunzioni – sia pure relative – di pericolosità sociale dei soggetti che ne risultino destinatari» (sono citate Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7-9 luglio 2020, n. 20577; sezione seconda penale, sentenza 14 gennaio-3 marzo 2020, n. 8541). Tale giurisprudenza trarrebbe d’altronde fondamento da una pronuncia delle Sezioni unite penali, che – in linea con la menzionata sentenza n. 291 del 2013 di questa Corte – avrebbe sancito il superamento della presunzione di pericolosità anche nei confronti di soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di tipo mafioso (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 30 novembre 2017-4 gennaio 2018, n. 111).
È ben vero, prosegue il rimettente, che tali pronunce della giurisprudenza di legittimità si collocano sul diverso piano dell’attualità della pericolosità sociale del destinatario della misura nel momento della sua adozione. Tuttavia esse confermerebbero il principio secondo cui la «pericolosità sociale rappresenti, e debba necessariamente rappresentare, il fulcro della prevenzione personale», le misure in questione risultando inserite nel sistema costituzionale «solo se finalisticamente orientate a contrastare una condizione di pericolosità attualmente esistente». In altri termini, osserva ancora il giudice a quo, «la pericolosità – nel sistema della prevenzione personale – non è solo presupposto applicativo delle misure, ma anche fondamento della loro perduranza, specie nelle ipotesi di sospensione o differimento dell’esecuzione delle medesime». Ciò anche in omaggio ai principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia, che esigerebbero una «necessaria verifica della permanenza della pericolosità del destinatario di una misura di prevenzione affinché possano dirsi garantite le condizioni di compatibilità della disciplina per le stesse dettata dal diritto interno con la libertà di movimento sancita dall’art. 2, Prot. 4 CEDU» (è citata Corte EDU, grande camera, sentenza 6 aprile 2000, Labita contro Italia).
1.3.1.- Più in particolare, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., in relazione al tertium comparationis rappresentato dall’art. 679 del codice di procedura penale, in ragione dell’«ingiustificato trattamento differenziato fra soggetti che si trovano in posizioni analoghe», e segnatamente tra persone destinatarie di misure di sicurezza e di misure di prevenzione. Tali misure avrebbero analoga ratio, essendo «parimenti orientate a prevenire la commissione di reati da parte di soggetti valutati come pericolosi e a favorirne il recupero verso l’ordinato vivere sociale». Mentre, infatti, in materia di misure di sicurezza occorrerebbe procedere a una «doppia valutazione della pericolosità (al momento della deliberazione con la sentenza emessa all’esito del giudizio di cognizione e, successivamente, al momento dell’esecuzione in concreto della misura)», la disposizione censurata prevederebbe un «lasso temporale rigido» di due anni, durante il quale l’esecuzione della misura di prevenzione è sospesa per esecuzione di pena, «al di sotto del quale non è possibile verificare se la pericolosità sociale del prevenuto sia o meno in concreto rimasta inalterata (con conseguente mantenimento di una presunzione iuris tantum di permanenza della pericolosità sociale)».
La disposizione censurata, inoltre, differenzierebbe irragionevolmente il trattamento delle ipotesi di detenzione per espiazione di pena protrattasi per almeno due anni, rispetto alle quali invece si richiede una rivalutazione della pericolosità prodromica all’effettiva applicazione della misura. L’irragionevolezza del trattamento differenziato tra le due situazioni si desumerebbe dal fatto che la meccanica esclusione della rivalutazione ex officio prevista per il caso di sospensione inferiore ai due anni «non consente di tener conto di quelle ipotesi in cui la detenzione, pur breve, abbia attenuato o addirittura escluso la concreta pericolosità del soggetto destinatario della misura di prevenzione». Inoltre, tale rigida soglia risulterebbe «iniqua anche sotto il profilo della mancata considerazione della durata della misura di prevenzione originariamente disposta così precludendo in radice la rivalutazione anche nelle ipotesi in cui – come quella in esame – il differimento dell’esecuzione della misura della sorveglianza speciale di P.S. si sia protratto oltre la complessiva durata della misura disposta con il provvedimento genetico».
1.3.2.- La disposizione censurata si porrebbe poi in contrasto con l’art. 13, primo comma, Cost. Infatti, sarebbe soltanto «la necessità di contenere la concreta e attuale pericolosità sociale a rappresentare il fulcro del sistema delle misure di prevenzione personale e a costituire la ragione delle limitazioni alla libertà personale che con esse vengono imposte».
Il rimettente osserva inoltre che «le misure in questione in tanto possono considerarsi legittime, in quanto rispettino i requisiti cui l’art. 13 Cost. subordina la liceità di ogni restrizione alla libertà personale, tra i quali rientra la necessaria proporzionalità della misura rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati (proporzionalità che è requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo)» (è citata la sentenza di questa Corte n. 24 del 2019). La disposizione censurata comporterebbe «una violazione del requisito della proporzionalità del provvedimento limitativo rispetto alla finalità special-preventiva presidiata […], nella parte in cui pretende di far discendere l’esecuzione di misure di prevenzione personali e delle prescrizioni fortemente limitative ad esse correlate dal solo provvedimento deliberativo della misura e in assenza di una rivalutazione d’ufficio della pericolosità sociale che ne deve costituire il fondamento, non solo applicativo, ma esecutivo e legittimarne la perduranza in ipotesi di sospensione o differimento della sua esecuzione».
Tale contrasto non sarebbe sanato dalla «possibilità attualmente prevista dalla norma censurata […] che sia l’iniziativa del prevenuto a sollecitare l’attivazione di un procedimento teso alla rivalutazione dell’attualità del presupposto», poiché «alla base di ogni provvedimento limitativo della libertà personale […] deve essere prevista in automatico la rivalutazione dell’attualità dei presupposti legittimanti l’applicazione della misura».
1.3.3.- Infine, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost. poiché «l’introduzione di una soglia temporale rigida […] al di sotto della quale non è mai necessario procedere alla rivalutazione della pericolosità sociale per applicare la misura di prevenzione personale equivale necessariamente a sostenere che in tale arco temporale l’espiazione della pena non possa aver sortito alcun effetto in termini di risocializzazione del condannato», e dunque «equivarrebbe ad introdurre una presunzione di inidoneità delle pene detentive che abbiano durata inferiore ai due anni a tendere alla funzione rieducativa».
2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
2.1.- Le questioni sarebbero anzitutto inammissibili per difetto di rilevanza.
Osserva in proposito l’Avvocatura generale dello Stato che «qualora, come nella specie, la detenzione abbia avuto una durata inferiore ai due anni, al prevenuto è data comunque la facoltà di presentare un’istanza, ai sensi dell’art. 11, comma 2, del D.lgs. 159/2011, finalizzata ad introdurre un procedimento di verifica della persistenza della propria pericolosità sociale». L’esito positivo di tale istanza avrebbe dunque potuto «far cessare la misura di prevenzione prima che ne fossero ripristinati gli effetti», ciò che avrebbe consentito all’interessato di non incorrere nel reato contestato.
L’inammissibilità per irrilevanza delle questioni di legittimità costituzionale rimesse deriverebbe, per altro verso, dalla considerazione che «la sentenza additiva auspicata dal [rimettente] non avrebbe comunque l’effetto di mandare assolto l’imputato non incidendo, quale forma di abolitio criminis, sulla fattispecie contravvenzionale contestata, la cui sussistenza è da valutare nel momento in cui il S.P.L. […] ha ripetutamente e consapevolmente violato le prescrizioni della sorveglianza speciale dei cui presupposti sostanziali, lui per primo, pur potendolo fare, non ha mai chiesto la rivalutazione».
Ancora, «[i]potizzare la rilevanza della questione sottoposta ai fini della decisione da assumere sulla colpevolezza dell’imputato, come fa il rimettente, corrisponde […] a ritenere che alle date delle commesse violazioni […] non si sarebbe ancora tenuta l’udienza camerale di verifica della pericolosità sociale, il che è quantomeno irragionevole supporre».
2.2.- La questione sarebbe comunque infondata nel merito.
2.2.1.- Quanto alla prospettata violazione dell’art. 3 Cost., la diversità di disciplina rispetto a quella dettata in materia di misure di sicurezza dall’art. 679 cod. proc. pen., assunto quale tertium comparationis dal rimettente, supererebbe «agevolmente il vaglio di ragionevolezza […] proprio in ragione delle […] diversità tra i due istituti»: diversità che sarebbe stata riconosciuta da questa Corte nella sentenza n. 291 del 2013, allorché ha precisato che tali due categorie di misure «restano comunque distinte per diversità di struttura, settore di competenza, campo e modalità di applicazione», ciò che esclude «un’indiscriminata esigenza costituzionale di omologazione delle rispettive discipline».
In particolare, le misure di sicurezza presupporrebbero la commissione di un determinato fatto di reato o quasi reato, sicché «il periodo di restrizione della libertà personale patito per la commissione di quello stesso illecito penale o fatto avente comunque rilevanza penale potrebbe avere influito positivamente sull’atteggiamento del soggetto verso i valori della convivenza civile, facendo venire meno la necessità di applicare la misura in questione». Le misure di prevenzione prescinderebbero, invece, dalla commissione di un fatto avente rilevanza penale, e potrebbero «essere adottate nei confronti di persone ritenute socialmente pericolose in ragione della loro condotta di vita e del loro profilo criminale». Pertanto, la cessazione della detenzione a titolo di espiazione della pena potrebbe avere «raggiunto il fine rieducativo, con riferimento ad una determinata condotta illecita», ma «non eliderebbe necessariamente la pericolosità sociale del destinatario della sorveglianza speciale di PS, eventualmente espressa anche tramite ulteriori condotte antisociali».
Inoltre, sarebbe stata questa Corte, nella sentenza n. 291 del 2013, a puntualizzare che «la verifica della pericolosità sociale può essere ragionevolmente omessa a fronte della brevità del periodo di differimento della misura di prevenzione che non rende necessario riattualizzare la valutazione della pericolosità». Il legislatore si sarebbe dunque fatto «carico di operare un bilanciamento adeguato e razionale tra l’esigenza di rendere attuale il giudizio di pericolosità sociale contenuto nel decreto applicativo della misura di sicurezza della sorveglianza speciale, ove risalente, e quella di conferire un certo grado di effettività e stabilità al giudizio stesso, in quanto fondato su valutazioni idonee a proiettare la prognosi sfavorevole verso un orizzonte di breve durata». Non si potrebbe d’altra parte ritenere che la pericolosità accertata dal giudice «possa essere elisa da una espiazione di pena in corso, allorquando la detenzione si protragga per un tempo non significativo, e senza che vengano, peraltro, eliminati i contatti con il mondo esterno come è tipico di questi casi nei quali è frequente il ricorso a strumenti beneficiali».
2.2.2.- Quanto all’evocata violazione dell’art. 13 Cost., secondo l’Avvocatura generale dello Stato il rimettente muoverebbe «dall’errato presupposto che la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, in ragione della tipologia di prescrizioni che possono essere applicate, inciderebbe sulla libertà personale del destinatario della misura».
In ogni caso, nei casi in cui la detenzione a titolo di espiazione della pena si sia protratta per un periodo di tempo inferiore ai due anni, sussisterebbe «solo una ragionevole presunzione relativa di persistenza della pericolosità sociale», superabile «mediante la presentazione, da parte del prevenuto che ne manifesti l’interesse, di un’istanza finalizzata a sollecitare l’instaurazione del procedimento camerale teso alla rivalutazione della propria pericolosità sociale».
2.2.3.- Infine, quanto al denunciato contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost., l’Avvocatura generale dello Stato ribadisce che «le misure di prevenzione prescindono dalla realizzazione di un fatto avente rilevanza penale e possono essere adottate nei confronti di persone ritenute socialmente pericolose in ragione della loro condotta di vita e del loro profilo criminale», rilevando altresì che «la cessazione dello stato detentivo non coincide necessariamente con l’espiazione definitiva della pena, potendo in fase esecutiva la detenzione essere sostituita da misure alternative compatibili con la contemporanea esecuzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza».
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale di Oristano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2-ter, cod. antimafia, nella parte in cui prevede che, in caso di sospensione dell’esecuzione della sorveglianza speciale durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto a detenzione per esecuzione di pena, il tribunale verifica la persistenza della sua pericolosità sociale soltanto ove lo stato di detenzione si sia protratto per almeno due anni.
2.- Le questioni, ampiamente motivate sotto il profilo della non manifesta infondatezza, sono rilevanti nel giudizio a quo, e sono dunque ammissibili.
2.1.- Il rimettente è giudice in un procedimento penale per la contravvenzione, prevista dall’art. 75, comma 1, cod. antimafia, di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, contestata a una persona sottoposta a tale misura di prevenzione dopo che la stessa misura era restata sospesa per più di anno, a causa dello stato di detenzione dell’interessato per esecuzione di pena.
Il giudice a quo dubita della compatibilità con la Costituzione della disposizione censurata, nella parte in cui, a contrario sensu, esclude l’obbligo di rivalutazione della pericolosità dell’interessato, da parte del tribunale che ha adottato la misura di prevenzione, nell’ipotesi in cui l’efficacia del provvedimento sia stata sospesa durante il tempo in cui l’interessato è stato sottoposto a detenzione per esecuzione di pena per una durata inferiore a due anni.
Laddove questa Corte ritenesse fondate tali questioni, l’imputato dovrebbe essere assolto dalla contravvenzione contestatagli, dal momento che – non essendo stata effettuata alcuna rivalutazione della sua persistente pericolosità sociale al momento della cessazione dello stato detentivo – la misura della sorveglianza speciale precedentemente adottata nei suoi confronti non avrebbe potuto considerarsi ancora esecutiva; sicché nessuna violazione degli obblighi relativi potrebbe essergli addebitata.
Una tale conclusione corrisponde, come puntualmente rilevato dal rimettente, al principio di diritto formulato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla parallela situazione in cui, nell’ipotesi di sospensione della misura di prevenzione per un tempo superiore a due anni in conseguenza dello status detentionis dell’interessato, non sia stata effettuata dal giudice della prevenzione alcuna rivalutazione della sua pericolosità. In tale situazione, le Sezioni unite penali hanno ritenuto che la misura di prevenzione debba ritenersi ancora sospesa, con conseguente non configurabilità del reato di cui all’art. 75, comma 1, cod. antimafia (Cass., sez. un., n. 51407 del 2018).
Tali considerazioni assicurano la rilevanza delle questioni sollevate nel giudizio a quo.
2.2.- Nessuno degli argomenti spesi dall’Avvocatura generale dello Stato per contestare la rilevanza delle questioni coglie, per contro, nel segno.
La possibilità per l’interessato di sollecitare egli stesso la verifica della persistenza della propria pericolosità sociale ai sensi dell’art. 11, comma 2, cod. antimafia (sul cui rilievo ai fini del merito si tornerà infra, punto 3.5.4.) non elide il vizio lamentato dal ricorrente, che consiste nella mancata previsione di una rivalutazione ex officio di tale pericolosità. Non essendo stata effettuata tale rivalutazione nel caso concreto – ciò che non è contestato dalla stessa Avvocatura generale dello Stato -, le questioni conservano intatta la loro rilevanza, giacché – come appena precisato – proprio da tale mancata rivalutazione discenderebbe, in caso di fondatezza delle questioni, il difetto di esecutorietà della misura e dei relativi obblighi, la cui violazione viene contestata nell’ambito del procedimento penale a quo.
Né ha pregio l’argomento secondo cui alla data delle violazioni contestate si sarebbe presumibilmente già svolta l’udienza camerale di verifica della persistente pericolosità dell’interessato, ove essa fosse stata necessaria, trattandosi di deduzione di carattere meramente ipotetico (che non tiene neppure conto della possibilità di un esito negativo del vaglio), a fronte dell’unico dato certo rappresentato dal mancato svolgimento di tale verifica.
3.- Nel merito, le questioni sono fondate, in riferimento a tutti i parametri evocati.
3.1.- Nella materia attigua delle misure di sicurezza, come più estesamente rammentato dalla sentenza n. 291 del 2013 (punto 5 del Considerato in diritto), una risalente giurisprudenza di questa Corte ha giudicato incompatibili con il canone della ragionevolezza fondato sull’art. 3 Cost. varie presunzioni assolute di pericolosità sociale poste alla base di automatismi nell’applicazione di tali misure (sentenze n. 249 del 1983, n. 139 del 1982 e n. 1 del 1971).
In conformità ai principi sottesi a tale giurisprudenza, la legge 10 ottobre 1986, n. 663(Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), la cosiddetta “legge Gozzini”, ha abrogato l’art. 204 del codice penale, che prevedeva una disposizione generale in materia di presunzione ex lege della pericolosità sociale ai fini dell’applicazione delle misure di sicurezza, e contestualmente ha introdotto il principio secondo cui «[t]utte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa» (art. 31, secondo comma, della legge n. 663 del 1986).
Restava però aperto il quesito se tale accertamento dovesse essere compiuto soltanto nel momento dell’applicazione della misura di sicurezza da parte del giudice della cognizione, ovvero (anche) nel momento dell’esecuzione della misura stessa, nelle ipotesi di esecuzione differita (ad esempio, allorché la misura di sicurezza dovesse essere eseguita dopo l’espiazione della pena). Il quesito fu sciolto dalla sentenza n. 1102 del 1988 di questa Corte, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 219, terzo comma, cod. pen., «nella parte in cui, per i casi ivi previsti, subordina il provvedimento di ricovero in una casa di cura e di custodia al previo accertamento della pericolosità sociale, derivante dalla seminfermità di mente, soltanto nel momento in cui la misura di sicurezza viene disposta e non anche nel momento della sua esecuzione». E ciò, appunto, sulla base della ritenuta insostenibilità, al metro dell’art. 3 Cost., della presunzione di persistenza della pericolosità già accertata al momento dell’applicazione della misura.
Il percorso si completò con il nuovo codice di procedura penale, che all’art. 679 – richiamato ora come tertium comparationis dal rimettente – prevede che «[q]uando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata […] ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa».
Conseguentemente – come questa Corte ha, ancora, sottolineato nella sentenza n. 291 del 2013 – «salvi i casi in cui la misura di sicurezza sia applicata direttamente dal magistrato di sorveglianza – la valutazione di pericolosità sociale dovrà essere effettuata due volte: prima dal giudice della cognizione, al fine di verificarne la sussistenza al momento della pronuncia della sentenza; poi dal magistrato di sorveglianza, quando la misura già disposta deve avere concretamente inizio, in modo tale da garantire l’attualità della pericolosità del soggetto colpito dalle restrizioni della libertà personale connesse alla misura stessa».
3.2.- I medesimi principi sono stati applicati da questa Corte alla materia delle misure di prevenzione, accomunate alle misure di sicurezza dalla finalità di «prevenire la commissione di reati da parte di soggetti socialmente pericolosi e [di] favorirne il recupero all’ordinato vivere civile (sentenza n. 69 del 1975, ordinanza n. 124 del 2004), al punto da poter essere considerate come “due species di un unico genus” (sentenze n. 419 del 1994 e n. 177 del 1980)» (sentenza n. 291 del 2013, punto 6 del Considerato in diritto).
In tale pronuncia questa Corte ha dato atto del diritto vivente allora esistente (cristallizzato in particolare da Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 marzo-14 luglio 1993, n. 6), secondo cui il giudice della prevenzione era tenuto ad accertare la pericolosità sociale soltanto nel momento dell’adozione della misura; mentre, nell’ipotesi in cui l’esecuzione della misura dovesse essere sospesa in conseguenza dello stato di detenzione dell’interessato, non sarebbe stato indispensabile un nuovo accertamento della pericolosità al cessare della detenzione, anche al fine di evitare il rischio, paventato dalle Sezioni unite, di «pericolose dilazioni» nell’esecuzione della misura, una volta che l’interessato riacquistasse la libertà.
Tale diritto vivente è stato ritenuto da questa Corte incompatibile con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
Conseguentemente, l’art. 15 cod. antimafia è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura».
Nel motivare tale decisione, la sentenza n. 291 del 2013 ha osservato che «il decorso di un lungo lasso di tempo incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile: ma a maggior ragione ciò vale quando si discuta di persona che, durante tale lasso temporale, è sottoposta ad un trattamento specificamente volto alla sua risocializzazione. Se è vero, in effetti, che non può darsi per scontato a priori l’esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione – sia pure solo iuris tantum – di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione: presunzione che risulta, per converso, sostanzialmente insita in un assetto che attribuisca alla verifica della pericolosità operata in fase applicativa una efficacia sine die, salvo che non intervenga una sua vittoriosa contestazione da parte dell’interessato. Ciò, quantunque la pericolosità sociale debba risultare attuale nel momento in cui la misura viene eseguita, giacché, in caso contrario, le limitazioni della libertà personale nelle quali la misura stessa si sostanzia rimarrebbero carenti di ogni giustificazione» (punto 6 del Considerato in diritto).
In tal modo, anche rispetto alle misure di prevenzione questa Corte ha imposto una doppia verifica di pericolosità: nel momento dell’adozione del provvedimento, e nel momento dell’effettiva esecuzione di esso, nella specifica ipotesi in cui tra essi si sia verificato uno iato temporale per effetto di una sospensione dovuta alla detenzione per espiazione di pena dell’interessato.
3.3.- Peraltro, la pronuncia appena menzionata ha precisato, nella parte conclusiva della motivazione, che sarebbe stata «rimessa all’applicazione giudiziale l’individuazione delle ipotesi nelle quali la reiterazione della verifica della pericolosità sociale potrà essere ragionevolmente omessa, a fronte della brevità del periodo di differimento dell’esecuzione della misura di prevenzione (si pensi al caso limite in cui la persona alla quale la misura è stata applicata si trovi a dover scontare solo pochi giorni di pena detentiva)» (punto 7 del Considerato in diritto).
Nel dichiarato intento di contribuire alla «certezza del diritto», a fronte delle difficoltà emerse nella prassi applicativa riguardo alla più precisa individuazione del periodo di sospensione che impone una reiterazione dell’accertamento della pericolosità, la relazione finale della Commissione ministeriale incaricata di elaborare una proposta di interventi in materia di criminalità organizzata, istituita con decreto del Ministro della giustizia del 10 giugno 2013, propose di fissare con legge la durata di tale periodo, stabilendo la necessità della verifica d’ufficio sulla persistente pericolosità sociale solo qualora la detenzione si fosse protratta per almeno due anni.
Tale proposta confluì nella legge 17 ottobre 2017, n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate), al cui art. 4, comma 1, si deve l’introduzione nel codice antimafia del comma 2-ter dell’art. 14, in questa sede censurato.
3.4.- La disposizione in parola reintroduce, di fatto, una presunzione di persistente pericolosità laddove la sospensione connessa allo stato di detenzione dell’interessato sia inferiore a due anni.
Una tale soluzione non appare a questa Corte in sintonia con la ratio della sentenza n. 291 del 2013, e con la giurisprudenza che si è poc’anzi richiamata in materia di misure di sicurezza.
3.5.- La presunzione in parola viola, anzitutto, l’art. 3 Cost., risultando per un verso intrinsecamente irragionevole (infra, punto 3.5.1.), e per altro verso foriera di un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla parallela disciplina oggi applicabile alle misure di sicurezza in forza dell’art. 679, comma 1, cod. proc. pen. (infra, punto 3.5.2.); mentre nessuno degli argomenti spesi in contrario dall’Avvocatura generale dello Stato coglie nel segno (infra, punti 3.5.3. e 3.5.4.).
3.5.1.- Sotto il primo profilo, non vi è, in linea generale, alcuna ragione per ritenere che nell’arco di un intero biennio la personalità di un individuo, e in particolare il suo atteggiamento nei confronti dei valori fondamentali della convivenza civile, non possa subire significative modificazioni, quando si tratti di un individuo detenuto in esecuzione di una pena, e dunque sottoposto a un trattamento che per vincolo costituzionale è finalizzato alla sua rieducazione.
E l’intrinseca irragionevolezza della soluzione legislativa all’esame diviene ancor più evidente allorché la cessazione della detenzione sia dovuta alla concessione di misure alternative, le quali presuppongono una valutazione di segno positivo riguardo alla condotta carceraria del condannato che vi acceda.
3.5.2.- D’altra parte, non v’è alcuna ragione plausibile per giustificare la differente disciplina, sotto questo specifico profilo, delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione.
Le une e le altre sono accomunate dalla finalità di controllare la pericolosità sociale del soggetto che vi è sottoposto (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.6. del Considerato in diritto): pericolosità sociale che, rispetto alle misure di sicurezza, è indiziata da un reato già accertato nel processo penale, ma che pure rispetto alle misure di prevenzione deve essere desunta da indizi relativi a precedenti condotte criminose, riconducibili al novero di quelle elencate nell’art. 4 cod. antimafia.
Esattamente come le misure di sicurezza, inoltre, anche «[l]e misure di prevenzione personale, sia se applicate dall’autorità amministrativa, sia se adottate dall’autorità giudiziaria, presuppongono […] l’attualità della pericolosità sociale del destinatario della misura» (sentenza n. 211 del 2022, punto 7.3. del Considerato in diritto), ed anzi sono imperniate su di «un giudizio di persistente pericolosità del soggetto» (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.7.1. del Considerato in diritto). Persistente pericolosità che deve essere puntualmente accertata, anche d’ufficio, nel tempo in cui la misura inizia (o riprende) ad avere esecuzione, dopo essere rimasta sospesa per effetto dello stato detentivo cui era sottoposto l’interessato.
3.5.3.- Né può condividersi il rilievo dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui il legislatore avrebbe correttamente dato seguito al caveat conclusivo della sentenza n. 291 del 2013, concretizzando il riferimento ivi contenuto alla «brevità del periodo di differimento dell’esecuzione» con l’indicazione del termine di due anni, ora contenuto nella disposizione censurata.
In effetti – come si evince dall’inciso in parentesi che immediatamente seguiva quel caveat, ove si menziona il «caso limite in cui la persona alla quale la misura è stata applicata si trovi a dover scontare solo pochi giorni di pena detentiva» – si deve ragionevolmente ritenere che questa Corte avesse inteso riconoscere alla prassi un margine di flessibilità per evitare una doppia valutazione della pericolosità, nelle ipotesi in cui la misura di prevenzione fosse stata richiesta per la prima volta, oppure fosse stata richiesta la rivalutazione della pericolosità sociale dell’interessato, appena prima della sua scarcerazione, nell’intento di evitare una soluzione di continuità tra il fine pena e l’avvio dell’esecuzione della misura. In tali specifiche ipotesi, la valutazione di pericolosità – pur se effettuata in un momento in cui l’esecuzione della misura di prevenzione è ancora sospesa ex lege – non perderebbe di attualità rispetto al momento nel quale essa potrà avere inizio, proprio perché compiuta nell’imminenza della cessazione della detenzione, quando per il tribunale è già possibile – e doveroso – tenere conto anche dei possibili esiti rieducativi connessi all’esecuzione della pena detentiva, ormai quasi completamente espiata.
Questa logica non può valere, invece, nelle ipotesi – certamente incluse nell’ambito applicativo della disposizione censurata – in cui la misura sia stata disposta mesi o addirittura anni prima rispetto alla liberazione dell’interessato, in tal caso esigendosi una nuova valutazione della sua pericolosità, alla luce degli elementi raccolti durante il percorso carcerario.
3.5.4.- Né, infine, vale a evitare il contrasto con l’art. 3 Cost. la natura soltanto relativa della presunzione legislativa, la quale in effetti può essere vinta – come rileva l’Avvocatura generale dello Stato – allorché l’interessato stesso si attivi sollecitando la revoca della misura ai sensi dell’art. 11, comma 2, cod. antimafia.
L’argomento era già stato confutato dalla sentenza n. 291 del 2013, nella quale si era osservato che tale possibilità «presuppone il trasferimento sull’interessato dell’onere di attivare un procedimento inteso a verificare, in negativo, l’attuale inesistenza della pericolosità, quale condizione per sfuggire al delineato “automatismo”», non valendo così «ad evitare il denunciato vulnus dell’art. 3 Cost.» (punto 6 del Considerato in diritto).
Ed invero, in un ordinamento in cui il godimento del diritto fondamentale alla libertà personale costituisce la “regola”, non può che spettare all’autorità pubblica l’onere di dimostrare, di fronte a un giudice, la sussistenza – in positivo – dei presupposti individuati dalla legge per la sua legittima, ed “eccezionale”, limitazione: a cominciare dalla pericolosità dell’interessato, il contenimento della quale costituisce la stessa ragion d’essere delle misure di prevenzione.
3.6.- Peraltro, la disposizione censurata contrasta anche con l’art. 13 Cost.
Questa Corte ha già avuto modo di rilevare che l’esecuzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza comporta una restrizione della libertà personale sancita dall’art. 13 Cost., posto che le prescrizioni inerenti a tale misura – anche quando non sia disposto l’obbligo di soggiorno in un determinato comune – implicano comunque, ai sensi dell’art. 8 cod. antimafia, la sottoposizione a una incisiva serie di obblighi, tra cui quelli di fissare la propria dimora, di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità di pubblica sicurezza, di non uscire di casa più presto e di non rincasare più tardi di una data ora (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.7.3. del Considerato in diritto; analogamente, con riguardo all’istituto dell’ammonizione, antesignano di quello in esame, sentenza n. 11 del 1956).
Ora, l’art. 13 Cost. subordina la legittimità costituzionale di eventuali restrizioni di tale libertà non solo alla puntuale definizione per legge dei presupposti della restrizione, ma anche al loro accertamento caso per caso da parte di un giudice; accertamento che, per esplicita previsione della norma costituzionale, deve qui intervenire in via preventiva, o comunque non oltre novantasei ore dall’avvenuta restrizione.
La disciplina censurata prevede, invece, un meccanismo di tutela giurisdizionale successivo e soltanto eventuale (perché attivabile soltanto su istanza di parte) su un requisito centrale – quello della pericolosità dell’interessato – la cui effettiva e persistente sussistenza al momento dell’esecuzione della misura deve essere considerata, a sua volta, condizione della sua proporzionalità rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati, che la misura di prevenzione persegue. Proporzionalità che, come questa Corte ha recentemente rammentato proprio a proposito delle misure di prevenzione, costituisce «requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo» (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.7.3. del Considerato in diritto; sulla necessaria proporzionalità di ogni misura dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona, di recente, anche sentenza n. 46 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto).
D’altra parte, la subordinazione della rivalutazione della pericolosità alla richiesta dell’interessato fa ricadere su quest’ultimo gli eventuali ritardi nella decisione del tribunale, restando nel frattempo eseguibile la misura nei suoi confronti, con conseguente indebita limitazione della sua libertà personale al metro dell’art. 13 Cost.
3.7.- Infine, la disciplina impugnata contrasta anche con il principio della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.
Se è vero, infatti, che il successo di un trattamento rieducativo non è mai scontato, la presunzione legislativa in esame muove – come correttamente rileva il rimettente – dal non condivisibile presupposto che un trattamento penitenziario in ipotesi protrattosi fino a due anni sia radicalmente inidoneo a modificare l’attitudine antisociale di chi vi è sottoposto. Se ritenuto corretto, un simile presupposto varrebbe a determinare di per sé l’incompatibilità con l’art. 27, terzo comma, Cost. di tutte le pene detentive di breve durata (sulla non sacrificabilità della funzione rieducativa della pena in favore di ogni altra, pur legittima, funzione della pena, sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).
Pur nella consapevolezza dei molti ostacoli di ordine fattuale che si frappongono alla realizzazione dell’obiettivo costituzionalmente imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost., l’ordinamento non può invece che muovere dalla premessa della idoneità anche delle pene detentive di durata non superiore ai due anni a svolgere una funzione rieducativa nei confronti del condannato. Il che impone, per ovvie ragioni di coerenza rispetto a quella premessa, di lasciare aperta la porta a una verifica caso per caso se questo risultato sia stato raggiunto, o se invece persista, nonostante l’avvenuta espiazione della pena, una situazione di pericolosità sociale dell’interessato, che deve ancora essere contrastata mediante l’effettiva esecuzione della misura precedentemente disposta.
4.- La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata esige soltanto la rimozione dell’inciso «se esso si è protratto per almeno due anni,».
In conseguenza di tale ablazione, dopo la cessazione dello stato di detenzione il tribunale sarà tenuto a verificare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato, con le modalità prescritte dalla disposizione in esame. Sino a tale rivalutazione, la misura di prevenzione in precedenza disposta dovrà considerarsi ancora sospesa, e le prescrizioni con essa imposte non potranno avere effetto nei confronti dell’interessato.
Resta ferma per il tribunale la possibilità, già prefigurata nella sentenza n. 291 del 2013, di procedere alla rivalutazione della pericolosità dell’interessato in un momento immediatamente antecedente la scarcerazione del destinatario della misura di sicurezza, ovvero di omettere la rivalutazione quando la misura sia stata adottata per la prima volta nell’imminenza di tale scarcerazione, tenendo conto dell’evoluzione della personalità dell’interessato durante l’esecuzione della pena.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), limitatamente alle parole «se esso si è protratto per almeno due anni,».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 settembre 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 17 ottobre 2024
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA