Nel caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte, all’imputato – che aveva inviato minacce telefoniche e con messaggi alla persona offesa per obbligarla a subire atti sessuali ed a corrispondergli somme di denaro – era stata applicata la pena concordata con il P.M., in sede di “patteggiamento” per i reati di tentata violenza sessuale e di estorsione consumata.
Avverso tale sentenza il medesimo proponeva ricorso in Cassazione, lamentando l’erronea qualificazione giuridica del fatto che – a suo dire – avrebbe integrato la tentata estorsione, avendo egli chiesto alla vittima anche il pagamento di somme di denaro.
Con la sentenza 17.717/2022, depositata il 4 maggio 2022, la Cassazione reputa infondato tale motivo in quanto: “…è configurabile il tentativo del delitto di violenza sessuale quando, pur in mancanza del contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta dal primo denoti il requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale”.
L’imputato lamentava poi di essere stato condannato due volte per lo stesso episodio: da un lato per tentata violenza sessuale e da altro lato per estorsione consumata.
Anche tale secondo motivo di ricorso viene ritenuto infondato dalla suprema Corte, posto che l’identità del fatto è rilevabile esclusivamente quando vi sia assoluta coincidenza tra la condotta, il nesso causale e l’evento.
Nel caso in esame l’eterogeneità concerneva proprio l’evento, posto che il tentativo di obbligare la vittima a subire atti sessuali e l’indebita richiesta di denaro ledono beni giuridici distinti: la libertà ed il patrimonio.
———————————–
Cass. pen., sez. II, ud. 16 marzo 2022 (dep. 4 maggio 2022), n. 17717
Presidente Di Paola – Relatore Recchione
Ritenuto in fatto
1.Il giudice per le indagini preliminari di Padova applicava al ricorrente la pena concordata ai sensi dell’art. 444 c.p.p., ritenendo sussistente il vincolo della continuazione la continuazione tra la contestazione relativa al tentativo di violenza sessuale e quella relativa all’estorsione consumata.
Si contestava al ricorrente (a) di avere tentato di costringere la vittima a patire atti sessuali attraverso continue minacce effettuate con messaggi o per telefono; (b) di avere tentato di costringere la stessa persona offesa a consegnargli la somma di Euro 1000, minacciandola che se non lo avesse fatto avrebbe rappresentato al marito l’incontro che era avvenuto tra di loro a Venezia.
- Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore che deduceva: 2.1. violazione di legge (art. 629e 609 bis c.p.): si contestava la correttezza della qualificazione giuridica, deducendo che la condotta definita come violenza sessuale avrebbe dovuto essere qualificata come estorsione, tenuto conto che tra le richieste del ricorrente vi era anche l’elargizione di una somma di denaro. Si deduceva, altresì, che le condotte contestate sarebbero inidonee a violare la libertà di autodeterminazione della persona offesa.
2.2. Violazione del divieto di ne bis in idem (art. 649 c.p.p.): il ricorrente sarebbe stato punito due volte per lo stesso fatto, in quanto la descrizione della condotta relativa al tentativo di violenza sessuale sarebbe del tutto sovrapponibile a quella di estorsione.
Considerato in diritto
- Il ricorso è infondato.
1.1.Quanto alla qualificazione giuridica della condotta descritta nel primo capo di imputazione (che il ricorrente vorrebbe fosse inquadrata come estorsione invece che come tentativo di violenza sessuale): il collegio condivide la giurisprudenza secondo cui è configurabile il tentativo del delitto di violenza sessuale quando, pur in mancanza del contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta dal primo denoti il requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale (Sez. 3, Sentenza n. 34128 del 23/05/2006, Viggiano, Rv. 234778 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 41985 del 09/09/2021, S., Rv. 282205 – 01)
Nessuna censura può, pertanto, essere mossa nei confronti della scelta di assegnare alla condotta descritta nel primo capo di imputazione la qualifica di tentata violenza sessuale, dato che le minacce che il ricorrente ha proferito per telefono, e attraverso i messaggi, risultavano sicuramente dirette a coartare la libertà sessuale della vittima e ad indurla a consumare atti sessuali.
1.2. Anche il secondo motivo di ricorso, che invoca la violazione del divieto del ne bis in idem, è infondato.
Il collegio ribadisce che per verificare/idem factum alla luce dei principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 200 del 2016 è necessario che l’autorità giudiziaria confronti i fatti contestati “sulla base della triade condotta-nesso causale-evento naturalistico”: solo la coincidenza di questi elementi consente di affermare che si procede per fatti identici (Corte cost n. 200 del 2016).
Pertanto: se per verificare l’idem factum è decisiva non solo la identità della condotta illecita, ma anche l’identità dell’evento, non può ritenersi che i fatti siano identici quando, pur riguardando la stessa persona offesa, le condotte offendano beni giuridici diversi, come la libertà sessuale ed il patrimonio.
Nel caso in esame nel primo capo di imputazione è descritto il tentativo di costringere la vittima a consumare atti sessuali e, solo in aggiunta, “anche” il tentativo di costringerla a consegnare una somma di denaro; condotta che, tuttavia, è stata separatamente contestata anche nel secondo capo di imputazione; deve pertanto ritenersi che solo questa seconda parte della condotta – che ripete pedissequamente quella descritta nel capo di imputazione che descrive il tentativo di estorsione – sia assorbita in quest’ultimo.
In conclusione, si ritiene che la sentenza impugnata abbia ritenuto legittimamente distinte le condotte descritte nel primo e nel secondo capo di imputazione: la descrizione della triade “condotta- nesso causale- evento” contenuta nelle due imputazioni fa infatti emergere infatti una perseverante azione minatoria diretta a ledere, in successione, due beni giuridici distinti – la libertà sessuale ed il patrimonio.
- Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso la parte che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso è condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 192 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.