E’ un vicenda assolutamente peculiare quella di cui si è occupata la seconda sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza 11949 depositata ieri 29 marzo 2021: un tizio aveva preso la pessima abitudine di disturbare le funzioni sacre con urla, rappresentando al sacerdote che avrebbe cessato tale comportamento, solo dopo aver ottenuto il pagamento di modesti importi di denaro, pacificamente non dovutigli.

In primo ed in secondo grado l’imputato viene riconosciuto colpevole del reato di estorsione e quindi lo stesso si rivolge alla Corte di cassazione, lamentando – per quanto qui interessa – l’insussistenza del ravvisato reato, essendo a suo avviso sussistente la meno grave contravvenzione di cui all’articolo 660 CP (molestia o disturbo alle persone).

Il supremo Collegio rigetta tuttavia il ricorso, evidenziando che la richiesta di somme di denaro non dovute è un elemento caratterizzante l’estorsione e non la precitata contravvenzione.

Si tratta di una pronuncia pienamente condivisibile, che si inserisce in un filone assolutamente pacifico del supremo Collegio.


Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 2 dicembre 2020 – 29 marzo 2021, n. 11949
Presidente Gallo – Relatore Tutinelli

Ritenuto in fatto

1. Con il provvedimento impugnato, la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza in data 20 settembre 2018 del Tribunale di Roma di condanna dell’odierno ricorrente per estorsione per avere costretto, dal 2012 con condotta perdurante, il parroco della chiesa (omissis) , a versargli piccole somme di denaro tra i 15 e i 40 Euro disturbando ripetutamente la celebrazione delle funzioni sacre con schiamazzi ed urla e minacciando il sacerdote P. di non cessare l’azione di disturbo prima del pagamento delle somme medesime.
2. Propone ricorso per cassazione l’imputato articolando i seguenti motivi.
2.1. Violazione di legge, in merito alla ritenuta configurabilità della fattispecie di cui all’art. 629 c.p..
La difesa afferma la mancanza di minaccia alcuna “non essendovi stati alcun disturbo delle funzioni sacre ed alcuna coartazione effettiva della volontà del parroco ad opera dell’imputato, ma semmai mera condotta molesta” da qualificarsi ai sensi dell’art. 660 c.p. Difetterebbe in sostanza l’uso di “modalità tali da forzare la controparte a scelte in qualche modo obbligate, facendo sì che non le venga lasciata alcuna ragionevole alternativa tra il soggiacere alle altrui pretese o il subire un pregiudizio” in tali termini ritenendo debba essere qualificata la condotta di chi “alzando il tono della voce per attirare a sé l’attenzione (omissis), anche utilizzando un linguaggio blasfemo (omissis), chiede denaro per poter cessare da tale comportamento”.
2.2. Travisamento della denuncia della persona offesa in punto sussistenza delle condotte minatorie e conseguente illogicità della motivazione.
La difesa segnala che il denunciante non aveva fatto riferimento specifico a funzioni religiose ma aveva parlato sia della “presenza di fedeli, sia nei vicini uffici e luoghi di svago dell’oratorio e sia della presenza in chiesa di fedeli” e che comunque mai di minacce si parlava ma di disturbi con correlativa richiesta di danaro “per poter cessare da tale comportamento”. Ne deriverebbe che la ricostruzione giudiziale in termini di minacce estorsive si fonderebbe su basi fallaci e risulterebbe nel suo complesso contraddittoria.
2.3. Omessa motivazione in ordine alla richiesta di derubricazione del fatto in termini di molestia continuata avanzata in sede di appello.
3. Il Procuratore Generale – in persona del sostituto Franca Zacco – ha depositato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è manifestamente infondato.
1.1. Quanto alla sussistenza degli elementi strutturali del delitto di estorsione, deve rilevarsi come risulti pacifico nel caso di specie che vi sia stata la coartazione del soggetto passivo che – in quanto ministro di culto – era messo nella sostanziale impossibilità di svolgere la sua funzione dalle (interessate) attività di disturbo del T. che – ben conoscendo la presenza di simili condotte perpetrate anche da parte di altro coimputato – aveva avuto facile gioco nell’ottenere un corrispettivo per la cessazione delle proprie gridate esibizioni. Nel valutare tali condotte, la Corte ha valorizzato caratteri qualificanti della condotta quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso operava, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima (sul punto cfr. Sez. 6, Sentenza n. 3298 del 26/01/1999 Rv. 212945 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 2702 del 18/11/2015 Rv. 265821 – 01).
1.2. In questi termini, risulta del tutto infondata la prospettazione di alcun travisamento della prova posto che la Corte risulta avere correttamente contestualizzato e descritto le condotte in conformità delle dichiarazioni in atti e il ricorrente propone per altro verso una sotto distinzioni giuridicamente infondate e irrilevanti ai fini della decisione.
1.3. Quanto sopra esclude la possibilità di qualsivoglia diversa qualificazione dei fatti perché molestie e disturbo richiamati dall’art. 660 c.p. risultano avere assunto nel caso di specie una finalizzazione patrimoniale del tutto estranea al reato di molestie e coessenziale al delitto di estorsione. Coerente a tali principi è del resto la consolidata e ultradecennale giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 2, n. 1977 del 09/10/1981 Rv. 152480 – 01 e Sez. 2, n. 1500 del 08/11/1978 Rv. 141086 – 01).
1.3. In punto residua dichiarazione di penale responsabilità del T. e al dedotto travisamento in relazione agli elementi di fatto richiamati dal ricorrente, sussiste una doppia pronuncia conforme. Va al proposito ricordato che sussiste una preclusione alla deducibilità del vizio di travisamento della prova di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione a quelle parti della sentenza che abbiano esaminato e valutato in modo conforme elementi istruttori, suscettibili di autonoma considerazione, comuni al primo ed al secondo grado di giudizio (Sez. 5, Sent. n. 18975 del 13/02/2017 Rv. 269906; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, 29/01/2014, Capuzzi, Rv. 258438).
1.4. Le rimanenti deduzioni risultano finalizzate ad una rilettura delle istanze istruttorie di cui si chiede a questa Corte una diretta valutazione. Va ricordato che, per consolidato orientamento di questa Corte, il giudizio di legittimità non si costruisce sull’esame delle possibilità rappresentative, anche plausibili, del fatto, ma sull’opzione del fatto come recepita dal giudice di merito, nel senso che il controllo sulla corretta applicazione dei canoni logici e normativi che presidiano l’attribuzione del fatto all’imputato passa necessariamente attraverso l’analisi dello sviluppo motivazionale della decisione impugnata e della sua interna coerenza logico giuridica, non essendo possibile compiere in sede di legittimità “nuove” attribuzioni di significato o realizzare una diversa lettura dei medesimi dati dimostrativi e ciò anche nei casi in cui si ritenga preferibile una diversa lettura, maggiormente esplicativa, del tema probatorio (si veda, ex multis, Sez. VI n. 11194 del 8.3.2012, Lupo, Rv 252178). Del resto, nemmeno è possibile ritenere insussistente il requisito della gravità degli indizi di colpevolezza sulla base di una inammissibile valutazione separata ed atomistica dei vari dati probatori, sussistendo motivazione che adeguatamente evidenzia come tali dati, coordinati ed apprezzati globalmente secondo logica comune, risultino idonei a dimostrare il fatto se coordinati organicamente (Sez. 2, Sent. n. 9269 del 05/12/2012, dep. 27/02/2013, Rv. 254871).
2. Alle suesposte considerazioni consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 3000,00. L’inammissibilità del ricorso preclude il rilievo della eventuale prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. Un., n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila a favore della Cassa delle ammende.