La Corte di Cassazione, sez. II Penale, con la sentenza n. 3556/21 depositata il 28 gennaio 2021 ha affrontato il caso di un uomo che, dopo essere stato vittima del furto del proprio telefonino, per “vendicarsi” di colui che riteneva essere il ladro, gli sottraeva dei beni, inerendogli lesioni e quindi veniva condannato per rapina.
Nel ricorso promosso avanti alla Suprema Corte dal difensore dell’uomo, si sosteneva che questi avesse agito per far valere il proprio diritto violato dalla vittima (presunto ladro) “perché convinto che quest’ultima gli avesse in precedenza sottratto un telefono cellullare” e che quindi la sua condotta fosse inquadrabile come “esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone”.
La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, ritenendo le relative le argomentazioni “manifestamente infondate” e spiegando che la condotta dell’imputato non poteva configurare l’esercizio del proprio diritto violato, in quanto “non aveva ad oggetto il cellulare che si assumeva indebitamente sottratto ma altri oggetti di proprietà della persona offesa”.
Sempre su tale punto la Corte aggiunge che, secondo consolidata giurisprudenza, “i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone si caratterizzano – distinguendosi dalla estorsione e dalla rapina – in relazione al profilo della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo era diretta, giacché tale requisito – che il giudice è preliminarmente chiamato a verificare – deve ricorrere per la configurabilità del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua degli altri reati (Cass. sez. 2, sent. n. 52525 del 10/11/2016 – dep. 12/12/2016 – Rv. 268764)”.
Infine, viene precisato che il nostro ordinamento non riconosce al creditore l’esercizio di un’azione diretta per ottenere il proprio credito, bensì “l’espropriazione forzata nelle forme di legge mediante ufficiale giudiziario”.
(S/RB)
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 21 – 28 gennaio 2021, n. 3556
Presidente Gallo – Relatore Agostinacchio
Fatto e diritto
- Con sentenza dell’11/07/2019 la Corte di appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Padova del 04/12/2013, confermava il giudizio di penale responsabilità dell’imputato appellante G.M.R. per i reati di rapina (capo a) e lesioni (capo b) a costui ascritti, riducendo la pena inflitta.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, tramite il difensore di fiducia, eccependo la violazione di legge (art. 393 c.p.) ed il vizio di motivazione, in relazione alla qualificazione giuridica dei fatti di cui al capo a) per aver agito nella convinzione di esercitare un proprio diritto ossia di aver sottratto con la forza alcuni beni della vittima perché convinto che quest’ultima gli avesse in precedenza sottratto un telefono cellullare.
3. Il ricorso si basa su argomentazioni manifestamente infondate oltre che reiterative rispetto ai precedenti gradi del giudizio.
Ha infatti correttamente sottolineato il giudice di merito con doppia pronuncia conforme di condanna che l’azione si sottrazione dell’imputato non aveva ad oggetto il cellulare che si assumeva indebitamente sottratto ma altri oggetti di proprietà della persona offesa.
Orbene, per pacifica giurisprudenza, i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone si caratterizzano – distinguendosi dalla estorsione e dalla rapina – in relazione al profilo della tutelabilità dinanzi all’autorità giudiziaria del preteso diritto cui l’azione del reo era diretta, giacché tale requisito – che il giudice è preliminarmente chiamato a verificare – deve ricorrere per la configurabilità del primo, mentre, se manca, determina la qualificazione del fatto alla stregua degli altri reati (Cass. sez. 2, sent. n. 52525 del 10/11/2016 – dep. 12/12/2016 – Rv. 268764).
4. Nel caso di specie la dedotta pretesa di restituzione del cellulare non giustificava certamente l’appropriazione di altri oggetti di proprietà della parte offesa posto che l’ordinamento non riconosce al creditore un’azione diretta all’apprensione di beni del debitore a saldo del dovuto, essendo a tal fine necessario non solo l’accertamento del credito ma, a fronte dell’inadempimento, l’espropriazione forzata nelle forme di legge mediante ufficiale giudiziario.
5. Per le considerazioni espOste, dunque, il ricorso va dichiarato inammissibile. Segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di Euro duemila a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila alla Cassa delle ammende.
Sentenza a motivazione semplificata.