E’ stata depositata ieri 21/10/2020 la sentenza n. 29096 resa dalla Corte di Cassazione, sez. III Penale che, ai limitati fini qui rilevanti, ha ritenuto correttamente motivata l’ordinanza 13/03/2020, con la quale il Tribunale per i Minorenni di Catania aveva rigettato la domanda di riesame avanzata per conto di un minore, indagato per sequestro di persona e violenza sessuale di gruppo, al quale pure era stata applicata la custodia cautelare in carcere minorile.

A base delle argomentazioni difensive si evidenziava che il ricorrente si sarebbe limitato ad una (“presenza inerte…  sul luogo della perpetrata violenza sessuale di gruppo”), non integrante concorso nel reato, ma mera connivenza non punibile.

La Suprema Corte condivide, invece, le argomentazioni dei giudici di merito, ravvisando un particolare disvalore nella contemporanea partecipazione di più soggetti al delitto , che necessariamente amplifica la gravità del fatto, ingenerando nella vittima un maggior e comprensibile timore, in modo da far scemare grandemente – se non addirittura annichilire – la capacità di opporre resistenza.

Quanto all’odioso reato in esame, non occorre la commissione di atti di  violenza sessuale da parte di ciascun partecipante alla “societas sceleris”, essendo sufficiente ad integrare il concorso nel reato un qualsiasi contributo causale, materiale o morale.

Tale viene ritenuto il comportamento del ricorrente, il quale effettuava un video dello stupro e dava chiare indicazioni ai partecipante materiali sulle zone erogene da sottoporre a toccamenti, così manifestando inequivocabile rafforzamento del dolo criminale dei compartecipi.


Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 21 luglio – 21 ottobre 2020, n. 29096

Presidente Di Nicola – Relatore Di Stasi

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 13/03/2020, il Tribunale per i Minorenni di Catania rigettava l’istanza di riesame proposta nell’interesse di V.S.S.  avverso l’ordinanza del 21/02/2020, con la quale era stata applicata al predetto la misura cautelare della custodia in istituto penitenziario minorile in relazione ai reati di sequestro di persona e violenza sessuale di gruppo (capi A-B dell’imputazione provvisoria).
2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione V.S.S. , a mezzo del difensore di fiducia, articolando due motivi di seguito enunciati.
Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, lamentando che il Tribunale aveva espresso, sul punto, una motivazione insufficiente e illogica, senza raffrontarsi con le censure difensive che attenevano alla ricostruzione alternativa del fatto ed alla valutazione complessiva degli elementi probatori.
Espone che erroneamente i Giudici di merito avevano attribuito valore preponderante alle dichiarazioni rese dai correi, infraquattordicenni, ed alle dichiarazioni delle persone offese.
Quanto alle dichiarazioni rese dai correi non imputabili, esse erano inutilizzabili perché assunte in violazione degli artt. 350, 63 e 64 c.p.p. e, comunque, senza l’osservanza del disposto dell’art. 351 c.p.p., comma 1 ter, la cui violazione, secondo un’interpretazione esegetica e non incostituzionale, dovrebbe comportare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni dei minori; il Tribunale, inoltre, aveva valutato tali dichiarazioni in maniera parcellizzata e senza rendere adeguata motivazione in ordine alla attendibilità e convergenza delle stesse, non essendovi coincidenza non solo tra di esse ma anche con le dichiarazioni rese dalla persona offesa; era stato, poi, travisato un dato probatorio fondamentale – la topografia dei luoghi analizzata attraverso Google Maps -che rendeva inverosimile la realizzazione dell’iter criminoso da parte del ricorrente dei reati di sequestro di persona e lesioni aggravate nell’arco temporale individuato dal Tribunale.
Le dichiarazioni della persone offesa, poi, erano state valutate in maniera frazionata ed omettendo una rigorosa motivazione in ordine alla credibilità del narrato accusatorio; inoltre, la circostanza, riferita dalla persona offesa, di una videoripresa che sarebbe stata effettuata dal ricorrente durante la violenza sessuale di gruppo, non aveva trovato conferma nè nelle dichiarazioni rese dai correi non imputabili nè negli esiti dei controlli effettuati dalla P.G. sui dispositivi di memorizzazione dei telefoni sequestrati ai quattro minori indagati; le complessive risultanze istruttorie, in definitiva, davano atto di una “presenza inerte” del ricorrente sul luogo della perpetrata violenza sessuale di gruppo, mera presenza che integrava l’ipotesi di una connivenza non punibile.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza delle esigenze cautelari ed alla adeguatezza della misura cautelare applicata.
Lamenta che il Tribunale aveva espresso una motivazione generica in ordine alla esigenza di cautela probatoria, richiamando elementi insufficienti e non riferibili alla posizione del ricorrente; con riferimento al pericolo di recidivanza, poi, il Tribunale aveva dato rilievo solo alla gravità del fatto senza valutare anche la personalità dell’indagato nè aveva evidenziato elementi concreti comprovanti la concretezza ed attualità di tale pericolo; infine, era stata ritenuta adeguata la misura cautelare della custodia in carcere con una motivazione costituente una mera clausola di stile.
Chiede, pertanto, l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Si è proceduto D.L. n. 18 del 2020, ex art. 83, comma 12-ter conv. L. n. 27 del 2020.

considerato in diritto

1. Il ricorso va dichiarato inammissibile.
2. Il primo motivo di ricorso ha ad oggetto doglianze manifestamente infondate o non proponibili in sede di legittimità.
2.1. È manifestamente infondata la doglianza avente ad oggetto la violazione degli artt. 350, 63 e 64 c.p.p..
Le norme di cui all’art. 350, 63 e 64 c.p.p. non trovano applicazione nella fattispecie in esame, in quanto il minore degli anni quattordici – che non può assumere, per la sua incapacità di diritto penale sostanziale e processuale, la qualità di imputato – può essere sentito in qualità di testimone in ordine ai fatti che lo hanno visto coinvolto come autore concorrente, dovendosi considerare tassativo, trattandosi di norma eccezionale, l’elencazione delle incompatibilità con l’ufficio di testimone indicate nell’art. 197 c.p.p., nessuna delle quali ha riguardo al minore non imputabile. (Sez. 2, n. 11698 del 16/11/1998, Rv. 211966 01).
La doglianza avente ad oggetto l’inosservanza del disposto dell’art. 351 c.p.p., comma 1 ter è inammissibile, alla luce del principio di diritto, secondo il quale è inammissibile, per carenza di interesse, l’impugnazione dell’imputato che deduce la violazione delle norme che prescrivono particolari cautele per l’assunzione della prova testimoniale del minore, trattandosi di modalità previste nell’esclusivo interesse di quest’ultimo (Sez.5, n. 32374 del 08/06/2017, Rv.270601 – 01).
Va, comunque, ricordato che questa Suprema Corte ha affermato, in maniera condivisibile, che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 351 c.p.p., comma 1-ter, in relazione all’art. 3 Cost. nella parte in cui non prevede la sanzione dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal minore alla polizia giudiziaria senza la presenza di un esperto psicologo o psichiatra infantile, come invece disposto dall’art. 391-bis c.p., comma 6, per quelle acquisite nel corso di investigazioni difensive, trattandosi di situazioni oggettivamente differenti fa cui diversa disciplina rientra nell’ambito riservato alla discrezionalità del legislatore (Sez.3, n. 22754 del 20/02/2018, Rv.273308 – 01).
2.2. Quanto alle ulteriori doglianze, che censurano la valutazione di sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, va osservato quanto segue.
La giurisprudenza di questa Corte si è da tempo consolidata nell’affermare che in tema di misure cautelari personali, per gravi indizi di colpevolezza ai sensi dell’art. 273 c.p.p., devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa che – contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono, di per sé, a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Sez. U, n. 11 del 21/04/1995, Costantino ed altro, Rv. 202002; Sez. 2, n. 28865 del 14/06/2013, Rv.256657; Sez.2, n. 12851 del 07/12/2017, dep.20/03/2018, Rv.272687).
La valutazione allo stato degli atti in ordine alla “colpevolezza” dell’indagato, per essere idonea ad integrare il presupposto per l’adozione di un provvedimento de libertate, deve, quindi, condurre non all’unica ricostruzione dei fatti che induca, al di là di ogni ragionevole dubbio, ad uno scrutinio di responsabilità dell’incolpato, ma è necessario e sufficiente che permetta un apprezzamento in termini prognostici che, come tale, è ontologicamente compatibile con possibili ricostruzioni alternative, anche se fondate sugli stessi elementi.
La valutazione della “prova” in sede cautelare rispetto a quella nel giudizio di cognizione si contraddistingue non in base alla differente intrinseca capacità dimostrativa del materiale acquisito, ma proprio per l’aspetto di provvisorietà del compendio indiziario che, in una prospettiva di evoluzione dinamica, potrà essere arricchito (Sez.1,n 13980 del 13/02/2015, Rv. 262300 – 01).
Ed è stato precisato che, ai fini dell’applicazione delle misure cautelari, anche dopo le modifiche introdotte dalla L. n. 63 del 2001, è ancora sufficiente il requisito della sola gravità degli indizi, posto che l’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, (introdotto dalla legge citata) richiama espressamente l’art. 192, commi 3 e 4 ma non il comma 2 che prescrive la valutazione della precisione e della concordanza, accanto alla gravità, degli indizi: ne consegue che essi, in sede di giudizio de libertate, non vanno valutati secondo gli stessi criteri richiesti per il giudizio di merito dall’art. 192 c.p.p., comma 2 – che, oltre alla gravità, richiede la precisione e la concordanza degli indizi – come si desume dall’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, che richiama i commi terzo e quarto dell’art. 192 c.p.p., ma non il comma 2 cit. articolo che richiede una particolare qualificazione degli indizi (Sez.4, n. 37878 del 06/07/2007, Rv. 237475; Sez. 5, n. 36079 del 05/06/2012, Rv. 253511; Sez. 6, n. 7793 del 05/02/2013, Rv.255053; Sez.4, n. 18589 del 14/02/2013, Rv.255928; Sez. 2, n. 26764 del 15/03/2013, Rv. 256731; Sez. 4, n. 22345 del 15/05/2014, Rv. 261963; Sez. 4, n. 53369 del 09/11/2016, Rv. 268683; Sez. 4, n. 6660 del 24/01/2017, Rv. 269179; Sez.2, n. 22968 del 08/03/2017, Rv.270172).
Va, inoltre, rammentato che questa Corte – nel richiamare l’art. 273 c.p.p. che richiede la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza quale indefettibile minimum probatorio per l’adozione di una misura cautelare personale ha affermato – principio che va qui ribadito – che allorquando sussista una prova diretta, quali le dichiarazioni rese dalla persona offesa, e non soltanto elementi di prova indiziaria, deve escludersi la necessità di fare ricorso al concetto di “gravità” inerente alla prova logica costituente l’indizio in quanto il minimo di gravità indiziaria è soverchiato dal diverso e più soddisfacente grado di prova acquisita; la dichiarazione della parte offesa del reato di per sé rappresenta, pertanto, un plus rispetto all’apporto richiesto dall’art. 273 c.p.p. ed il richiamo ad opera dell’art. 273 c.p.p., comma 1 bis dell’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 non comporta la necessità che le dichiarazioni accusatorie della persona offesa trovino riscontro in elementi esterni, così che esse possono ancora costituire da sole fonte di prova quando siano ritenute dal giudice, secondo il suo libero e motivato apprezzamento, attendibili sul piano oggetto e su quello soggettivo (Sez.3, n. 39366 del 26/10/2006, Rv.235521; Sez.3,n. 1818 del 03/12/2010, dep. 20/01/2011, Rv.249136; Sez.5, n. 27774 del 26/04/2010, Rv.247883; Sez.5, n. 5609 del 20/12/2013, dep.04/02/2014, Rv.258870).
Va, poi, evidenziato che il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti relativi all’applicazione di misure cautelari personali è ammissibile soltanto se denunci la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando proponga censure che riguardano la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvono in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 5, n. 46124 del 8/10/2008, Pagliaro, Rv. 241997; Sez.6, n. 11194 del 8/03/2012, Lupo, Rv. 252178; Sez.6, n. 49153 del 12/11/2015, Rv.265244).
La funzione di legittimità è, quindi, limitata alla verifica della adeguatezza del ragionamento e della valutazione adottata nel provvedimento sottoposto al suo esame, che deve manifestare con chiarezza ed esaustività quale argomentazione critica lo abbia sorretto nel pervenire alla ricostruzione dei fatti, tenendo conto di tutti gli elementi, sia contro che a favore del soggetto sottoposto al suo esame (Sez.6, n 40609 del 01/10/2008, Rv.241214; Sez.6, n. 18190 del 04/04/2012, Rv.253006; Sez.6,n. 27928 del 14/06/2013, Rv.256262).
Nella specie, il Tribunale ha confermato l’ordinanza genetica, motivando specificamente e diffusamente in ordine alla attendibilità della persona offesa: ha vagliato in positivo l’attendibilità intrinseca della denunciante, ha valutato i numerosi riscontri esterni alle dichiarazioni della stessa, delineando le condotte addebitabili al ricorrente e dando specifica risposta ai rilievi difensivi qui riproposti (pag 3-16 dell’ordinanza impugnata).
La motivazione è congrua e non manifestamente illogica e, pertanto, si sottrae al sindacato di legittimità.
Le censure che il ricorrente svolge attengono alla ricostruzione dei fatti ovvero si risolvono in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito e, quindi, sono meramente in fatto e, come tali, non deducibili in sede di legittimità.
2.3. Nè coglie nel segno la deduzione difensiva che rimarca una “presenza inerte” del ricorrente sul luogo della perpetrata violenza sessuale di gruppo, mera presenza che integrerebbe l’ipotesi di una connivenza non punibile.
Va ricordato che, ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale di gruppo, previsto dall’art. 609- octies c.p., è necessario che più persone riunite partecipino alla commissione del fatto, costituendo tale delitto una fattispecie autonoma di reato necessariamente plurisoggettivo proprio, consistente nella “partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis”, in cui la pluralità di agenti è richiesta come elemento costitutivo (Sez.3, n. 36036 del 18/07/2012, Rv.253687; Sez.3, n. 3348 del 13/11/2003, dep.29/01/2004, Rv 227496; Sez 3 del 11.10.1999, n. 11541, ric. Bombaci ed altri).
La previsione di un trattamento sanzionatorio più grave si connette proprio al riconoscimento di un peculiare disvalore alla partecipazione simultanea di più persone, in quanto una tale condotta partecipativa imprime al fatto un grado di lesività più intenso sia rispetto alla maggiore capacità di intimidazione del soggetto passivo ed al pericolo della reiterazione di atti sessuali violenti (anche attraverso lo sviluppo e l’incremento di capacità criminali singole) sia rispetto ad una più odiosa violazione della libertà sessuale della vittima nella sua ineliminabile essenza di autodeterminazione. La contemporanea presenza di più di un aggressore è idonea a produrre, infatti, effetti fisici e psicologici particolari nella parte lesa, eliminandone o riducendone la forza di reazione.
Non è tuttavia richiesto che tutti i componenti del gruppo compiano atti di violenza sessuale, essendo sufficiente che dal compartecipe sia comunque fornito un contributo causale, materiale o morale, alla commissione del reato, nè è necessario che i componenti del gruppo assistano al compimento degli atti di violenza sessuale, essendo sufficiente la loro presenza nel luogo e nel momento in cui detti atti vengono compiuti, anche da uno solo dei compartecipi, atteso che la determinazione di quest’ultimo viene rafforzata dalla consapevolezza della presenza del gruppo (Sez.3, n. 6464 del 05/04/2000, Rv.216978; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003, dep. 29/01/2004, Pacca ed altro, Rv. 227495; Sez.3, n. 11560 del 11/03/2010, Rv.246448).
Il concetto di “partecipazione”, quindi, non può essere limitato nel senso di richiedere il compimento, da parte del singolo, di un’attività tipica di violenza sessuale (ciascun compartecipe, cioè, dovrebbe porre in essere, in tutto o in parte, la condotta descritta nell’art. 609-bis c.p.), dovendo invece – secondo un’interpretazione più aderente alle finalità perseguite dal legislatore – ritenersi estesa la punibilità (qualora sia comunque realizzato un fatto di violenza sessuale) a qualsiasi condotta partecipativa, tenuta in una situazione di effettiva presenza non da mero “spettatore”, sia pure compiacente, sul luogo ed al momento del reato, che apporti un reale contributo materiale o morale all’azione collettiva (Sez.3, n. 15089 del 11/03/2010 Rv.246614; Sez.3, n. 44408 del 18/10/2011, dep.30/11/2011, Rv.251610).
Nella specie, l’ordinanza impugnata, ha ritenuto, con argomentazioni congrue e logiche, che una situazione siffatta risulta in concreto emergere dalle risultanze probatorie nella vicenda in esame, atteso che il ricorrente, presente nel luogo della perpetrata violenza sessuale durante tutto il tempo in cui si verificavano i fatti, imponeva sia un toccamento al seno alla persona offesa e realizzava anche un video dei fatti criminali, manifestando, in ogni caso, una chiara adesione alla violenza di gruppo che rafforzava il proposito criminoso del gruppo.
3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Il provvedimento impugnato è esente da vizi di motivazione in ordine alla valutazione della sussistenza delle esigenze cautelari.
Quanto al pericolo, concreto ed attuale, di reiterazione criminosa, il Tribunale non si è limitato ad evocare la gravità del titolo di reato ma ha valutato anche specificamente la personalità dell’indagato, desunta dalle modalità del fatto e dal contesto in cui il fatto si era realizzato (pag 16 e 17 dell’ordinanza impugnata).
Va rimarcato che la necessaria concretezza del giudizio prognostico discende, dagli stessi parametri valutativi enucleati dall’art. 274, lett. c e cioè dalle “specifiche modalità e circostanze del fatto” e dalla personalità dell’imputato o indagato come “desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali”, che ancorano tale valutazione alla specifica situazione dell’indagato, scongiurando automatismi nell’applicazione delle misure dipendenti dalla mera gravità in astratto del titolo di reato contestato (Sez. 3, n. 1166 del 02/12/2015, dep.14/01/2016, Rv.266177).
Inoltre, va osservato che il requisito della attualità, non può certo essere equiparato all’imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma sta invece ad indicare la continuità del periculum libertatis nella sua dimensione temporale, che va apprezzata sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell’indagato e va fondata sia sulla personalità dell’accusato, desumibile anche dalle modalità del fatto per cui si procede, sia sull’esame delle sue concrete condizioni di vita. Tale valutazione prognostica non richiede, tuttavia, la previsione di una “specifica occasione” per delinquere, che esula dalle facoltà del giudice (Sez.5, n. 33004 del 03/05/2017, Rv.271216).
L’ordinanza impugnata ha, quindi, pienamente osservato i criteri direttivi ora indicati, perché in essa la valutazione è stata eseguita richiamando la valorizzazione di un complesso di emergenze coerentemente rappresentate, in particolare, l’analisi delle specifiche modalità di realizzazione della condotta delittuosa oltre che la disamina del peculiare contesto in cui il reato si è realizzato ed ha prodotto i suoi effetti, alla luce della qualificata personalità negativa palesata dal ricorrente ed alle condizioni di vita dello stesso: elementi tutti idonei rendere non solo concreto ma anche attuale il pericolo di recidivanza.
La motivazione è adeguata, logica e conforme a diritto, alla luce dell’art. 274 c.p.p., lett. c), come modificato ad opera della L. 16 aprile 2015, n. 47, che richiede che il pericolo che l’imputato commetta altri delitti deve essere non solo concreto, ma anche attuale.
Irrilevante è, poi, la contestazione difensiva in ordine alla valutazione della persistenza dell’ulteriore esigenza cautelare, quella dell’inquinamento probatorio, basata dal Tribunale sulla circostanza che la persona offesa era stata oggetto di reiterate minacce per indurla al silenzio.
Va ricordato che costituisce giurisprudenza consolidata che, in tema di misure cautelari personali, le tre esigenze cautelari relative al pericolo di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato non devono necessariamente concorrere, bastando anche l’esistenza di una sola di esse per fondare la misura (Sez. 3, n. 15980 del 16/04/2020, Rv. 278944 – 02; Sez. 3, n. 35973 del 03/03/2015, Rv.264811 – 01.).
Del pari adeguate e logiche sono le argomentazioni poste a giustificazione della adeguatezza della misura applicata.
Il Tribunale ha ritenuto proporzionata la misura della custodia in carcere, evidenziando la gravità del reato e della condotta contestata all’indagato e rilevando che, dall’esame del quadro probatorio complessivo, risultava che le modalità comportamentali e l’assetto relazionale posto in essere dall’indagato avevano messo in luce una allarmante mancanza di riconoscimento del valore della persona; inoltre, la diversa misura della permanenza in casa è stata valutata inidonea ad arginare sia il rischio di compromettere la genuinità delle indagini che di evitare la reiterazione di comportamenti analoghi, non risultando la famiglia del ragazzo pienamente consapevole delle frequentazioni e della gestione di libertà di movimento del figlio; del pari, inadeguata è stata ritenuta la misura del collocamento in comunità, considerata la carenza di adesione del minore ad un progetto di cambiamento interiore.
Le censure che il ricorrente svolge sono meramente ripropositive di questioni già adeguatamente esaminate dal Tribunale e si risolvono in una diversa valutazione delle risultanze istruttorie esaminate dal giudice di merito e, quindi, sono meramente in fatto e, come tali, non deducibili in sede di legittimità.
Va, a tal proposito, richiamato il principio secondo il quale anche il giudizio di sussistenza delle esigenze cautelari è censurabile in sede di legittimità soltanto se si traduca nella violazione di specifiche norme o nella mancanza o manifesta illogicità della motivazione, rilevabili dal testo del provvedimento impugnato ma non anche quando il ricorrente proponga censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. F, n. 47748 del 11/08/2014, Rv. 261400; Sez. 1, n. 795 del 06/02/1996, Rv.204014; Sez. 1, n. 1769 del 23/03/1995, Rv.201177).
4. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
5. Alla declaratoria di inammissibilità non fa seguito la condanna alle spese nè al versamento di una somma a favore della Cassa delle ammende, in ragione del disposto di cui al D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 272, art. 29 (S.U. n. 15 del 31.5.2000, Radulovic, Rv. 216704; Sez. 1, n. 48166 del 26/11/2008, Rv. 242438; Sez. 3, n. 5754 del 16/01/2014, Rv. 259134; Sez.1, n. 26870 del 03/10/2014, dep. 25/06/2015, Rv.264025).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.