Con sentenza n. 27234/2020, depositata ieri 1 ottobre 2020 (in calce), la quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di un imputato, il quale era stato condannato nei due gradi di giudizio di merito, per avere reso false dichiarazioni in ordine all’entità del reddito familiare, rilevante ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
L’imputato aveva infatti chiesto l’ammissione al c.d. “gratuito patrocinio” in un procedimento penale, dichiarando che il reddito suo e dei familiari con lui convivente non superava il limite previsto dalla legge , mentre dalle successive era emerso che il padre convivente aveva in realtà ha percepito somme di denaro ben superiori .
Da tali premesse era originato altro processo penale a carico dell’imputato, conclusosi con condanna per il reato di cui all’art. 95 DPR 115/2002 in primo ed in secondo grado, annullata con la sentenza in esame.
I giudici di legittimità, condividendo i motivi del ricorso, reputano che la sentenza di appello non abbia focalizzato il problema posto dall’ imputato, consistente nella possibilità – o meno – di qualificare “reddito” quanto corrisposto al genitore convivente dall’INAIL per la morte di un figlio.
Viene così richiamato il noto insegnamento della Corte di cassazione civile, che reputa reddito imponibile solo il risarcimento del danno patito per la mancata percezione di redditi e non quello di alla natura.
Nel caso di specie, tuttavia , i giudici di merito non avevano approfondito le motivazioni sottese all’erogazione di dette somme al padre dell’imputato, per cui si impone un nuovo giudizio, che faccia chiarezza sul punto.
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 15 settembre – 1° ottobre 2020, n. 27234
Presidente Fumu – Relatore Cenci
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Torino il 6 novembre 2019, in parziale riforma della sentenza con cui il G.i.p. del Tribunale di Torino il 7 febbraio 2019, all’esito del giudizio abbreviato, ha riconosciuto G.A. responsabile del reato di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 95, per avere, nell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato depositata il 5 aprile 2016 nell’ambito di procedimento penale, dichiarato falsamente che il reddito complessivo del nucleo familiare, comprendente anche i genitori, non superava i limiti prescritti, mentre, in realtà, il padre nell’anno 2014 (dichiarazione dei redditi del 2015) aveva percepito complessivi 18.458,00 Euro, in conseguenza condannandolo, con le attenuanti generiche stimate equivalenti alla recidiva, con l’aumento per l’aggravante di avere conseguito il beneficio ed operata la diminuzione per il rito, alla pena stimata di giustizia, invece, ritenuta la equivalenza tra le aggravanti eterogenee, ha rideterminato, riducendola, la pena.
2. Ricorre per la cassazione della sentenza l’imputato, tramite difensore di fiducia, affidandosi ad un unico motivo con il quale denunzia promiscuamente violazione di legge (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 95) e difetto di motivazione, sotto il profilo della assoluta mancanza del requisito e, comunque, della carenza e della contraddittorietà della giustificazione circa la responsabilità penale dell’imputato, la sussistenza della condotta di reato e l’elemento soggettivo.
In particolare, il ricorrente rammenta che dall’istruttoria è pacificamente emerso che il padre del sig. G.A. , G.G. , nel 2014 ha percepito Euro 6.518,00 quale reddito in senso proprio ed Euro 11.940,00 (totale delle due voci, Euro 18.458,00) quale reddito esente – rendita percepita dal padre da parte dell’Inail quale indennizzo per la morte di un ulteriore figlio, fratello di A. .
Trattandosi di risarcimento del danno per la perdita di un figlio e non già di entrata reddituale, tale rendita non rientrerebbe nell’ambito di applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 3. Si richiamano al riguardo circolari del ministero delle Finanze e decisioni della giustizia amministrativa.
I giudici di merito, dunque, avrebbero errato nell’interpretare il contenuto precettivo (nozione di “reddito”) di una legge penale.
Si rammenta che la situazione di confusione ha determinato, tra l’altro, la presentazione il 9 marzo 2017 di un’interrogazione parlamentare sul punto.
La Corte di appello non avrebbe fornito risposta – o ne avrebbe fornito di meramente apparente – nè alla riferita questione di diritto nè agli aspetti fattuali che erano stati evidenziati con l’appello, tali da incidere, comunque, quantomeno sulla configurabilità dell’elemento soggettivo del reato: il lungo periodo di detenzione dell’imputato, in carcere ed al domicilio; l’essere stato colpito da ictus nel 2013, con conseguente sottoposizione a lunghe terapie riabilitative; la esclusiva disponibilità in capo al padre del conto corrente sul quale era versata la rendita Inail; la circostanza che la rendita era stata concessa mentre il ricorrente era in carcere, sicché ben poteva esserne all’oscuro.
Richiamati precedenti di legittimità circa la necessità di rigorosa dimostrazione del dolo, sottolinea doversi escludere il reato allorché il fatto derivi da semplice negligenza o leggerezza dell’agente, come sarebbe accaduto nel caso di specie, e si chiede l’annullamento della sentenza impugnata.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto, per le seguenti ragioni.
2. Va premesso che i giudici di merito (Tribunale, p. 3, e Corte di appello, p. 3) hanno fatto riferimento all’orientamento interpretativo di cui sono espressione Sez. 3, n. 25194 del 21/03/2011, Brina, Rv. 250960 (secondo cui “La determinazione del reddito ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato deve tener conto, nell’individuazione di quello complessivo dei familiari conviventi anche dei redditi per legge esenti dall’imposta per le persone fisiche o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ovvero ad imposta sostitutiva. (Nella specie l’imputato aveva falsamente dichiarato i redditi familiari nell’istanza di ammissione al patrocinio, omettendo in particolare di indicare le somme percepite, rispettivamente, dal padre, a titolo di TFR e, dalla sorella, a titolo di indennità di disoccupazione)”), e, prima ancora, Sez. 4, n. 45159 del 04/10/2005, Bagarella, Rv. 232908 (“Ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, per la determinazione dei limiti di reddito rilevano anche i redditi che non sono stati assoggettati ad imposte vuoi perché non rientranti nella base imponibile, vuoi perché esenti, vuoi perché di fatto non hanno subito alcuna imposizione: ne consegue che rilevano anche i redditi da attività illecite ovvero i redditi per i quali l’imposizione fiscale è stata esclusa”).
Si tratta di affermazioni di principio indubbiamente condivisibili e sulle quali non si può non convenire.
3. Il problema è che, a fronte ad un atto di appello indubbiamente articolato e ben strutturato (v. specc. pp. 4-15), la motivazione della Corte territoriale non coglie il cuore del problema posto dalla difesa, che è incentrato sulla natura delle entrate patrimoniali percepite dal genitore del richiedente nell’anno 2014. Il punto, infatti, non è se il reddito da prendere in considerazione sia imponibile o esente o soggetta a ritenuta alla fonte o ad imposta sostitutiva ma se l’incremento patrimoniale del genitore convivente con il richiedente il beneficio, rinveniente dalla morte di un altro figlio, sia o meno reddito.
Per rispondere occorre prendere le mosse dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, che, al comma, 1 prevede che possa essere ammesso al beneficio “chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito”, specificando poi, al comma 3, che “si tiene conto anche dei redditi che per legge sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) o che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ovvero ad imposta sostitutiva”: in conseguenza, nella dichiarazione vanno indicati i redditi rilevanti ai sensi dell’art. 76, come confermato dal tenore letterale del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 79, comma 1, lett. c).
Ciò posto, per la nozione di reddito, come testualmente prevede il citato art. 76, non può che farsi riferimento al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (recante “Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi”, per brevità TU delle imposte sui redditi), in particolare agli artt. 1 e 6 dello stesso.
L’art. 1 (“Presupposto dell’imposta”), comma 1, del D.P.R. n. 917 del 1986, pone il fondamentale principio secondo il quale “Presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6”, cui rinvia.
L’art. 6 (“classificazione dei redditi”) prevede, al comma 1, con elencazione “chiusa”, che “I singoli redditi sono classificati nelle seguenti categorie: a) redditi fondiari; b) redditi di capitale; c) redditi di lavoro dipendente; d) redditi di lavoro autonomo; e) redditi di impresa; f) redditi diversi” e, al comma 2, che “I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti. Gli interessi moratori e gli interessi per dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati”.
Ci si deve allora interrogare se la somma nel caso di specie percepita dal padre dell’imputato a seguito della morte di un figlio da parte dell’Inail (acronimo di: Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) rientri o meno in alcuna delle categorie di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6.
È agevole rispondere che non si tratta di voce riconducibile alle categorie redditi fondiari (lett. a), redditi di capitale (lett. b), redditi di lavoro dipendente (lett. c), redditi di lavoro autonomo (lett. d) e redditi di impresa (lett. e).
Quanto alla categoria redditi diversi (lett. f), la cui elencazione è contenuta nell’art. 67 del TU delle imposte sui redditi, si tratta, come noto, di una categoria eterogenea, una variegata miscellanea priva di un presupposto specifico unitario, cui non può assimilarsi, in difetto di espressa indicazione da parte del legislatore, la rendita percepita dal padre quale indennizzo per la morte di un figlio da parte dell’Inail.
Dunque, il principio che si desume dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, confermato dalla giurisprudenza civile, anche con recenti pronunciamenti, è il seguente:
“In tema di imposte sui redditi, in base al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette ad imposizione qualora risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, mentre non costituiscono reddito imponibile nella diversa ipotesi in cui esse tendano a ristorare un pregiudizio di natura diversa. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto tassabile il risarcimento commisurato ai redditi che una contribuente, ingiustamente esclusa da un concorso per titoli, avrebbe percepito nel periodo ricompreso fra la data in cui avrebbe dovuto essere assunta dall’ente e quella di assunzione di altro impiego pubblico, avvenuta nelle more dell’annullamento della delibera di esclusione dal concorso)” (Sez. 5, n. 10244 del 26/04/2017, A. vs. A., Rv. 643933-01);
“In tema di imposte sui redditi, in base al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 2 (nel testo applicabile “ratione temporis”), le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, mentre non costituiscono reddito imponibile nell’ipotesi in cui esse tendano a riparare un pregiudizio di natura diversa. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto non tassabile il risarcimento ottenuto da un dipendente “da perdita di chance”, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi e progressioni nell’attività lavorativa a seguito dell’ingiusta esclusione da un concorso per la progressione in carriera)” (Sez. 5, n. 29579 del 29/12/2011, Agenzia delle Entrate vs. Bernardi, Rv. 620975).
Il riferito principio, secondo il quale, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, le somme percepite a titolo risarcitorio sono soggette ad imposizione solo qualora risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, non costituendo invece reddito imponibile nella diversa ipotesi in cui esse tendano a ristorare un pregiudizio di natura diversa, non è, peraltro, portato esclusivo della giurisprudenza civile.
Infatti, la Corte di cassazione penale ha, in più occasioni, escluso dalla nozione di reddito rilevante per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, l’indennità di accompagnamento a favore degli invalidi (v. Sez. 1, n. 17865 del 27/02/2002, P.O. in proc. Salomone, Rv. 222022, e Sez. 3, n. 31591 del 01/07/2002, Pagliarulo, Rv. 222311; e, più recentemente, Sez. 4, n. 24842 del 04/02/2015, PG in proc. Guadagnino, Rv. 263720). E ciò in base alla esplicita considerazione che non può trattarsi di “redditi” in senso proprio quanto piuttosto un’erogazione di sostegno diretta alla remunerazione dell’opera di terze persone impegnate nell’assistenza all’invalido (Sez. 1, n. 17865 del 27/02/2002, P.O. in proc. Salomone, cit.) ovvero di un sussidio destinato a fare fronte ad impegni di spesa indispensabili per consentire all’invalido condizioni di vita compatibili con la dignità umana (Sez. 3, n. 31591 del 01/07/2002, Pagliarulo, cit.).
Con analoga sensibilità valoriale, sia pure in differente situazione, il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale ha ritenuto che nel reddito imponibile ai fini ISEE non si debbano tenere in conto i trattamenti indennitari percepiti dai disabili, in quanto si tratta di somme erogate al fine di attenuare una situazione di svantaggio, tendenti a dare effettività al principio di uguaglianza, sottolineando che “se (alcune) somme sono erogate al fine di attenuare una situazione di svantaggio, tendono a dar effettività al principio di uguaglianza, di talché è palese la loro non equiparabilità ai redditi già di per sé” ed anche che, in caso di erogazione di indennità di accompagnamento o di misure risarcitorie per inabilità che prescindono dal reddito, “nè l’una, nè l’altro rientrano in una qualunque definizione di reddito assunto dal diritto positivo, nè come reddito entrata, nè come reddito – prodotto (essenzialmente l’IRPEF). In entrambi i casi, per vero, difetta un valore aggiunto, ossia la remunerazione d’uno o più fattori produttivi (lavoro, terra, capitale, ecc.) in un dato periodo di tempo, con le correzioni che la legge tributaria se del caso apporta per evitare forme elusive o erosive delle varie basi imponibili (…) Non è allora chi non veda che l’indennità di accompagnamento e tutte le forme risarcitorie servono non a remunerare alcunché, nè certo all’accumulo del patrimonio personale, bensì a compensare un’oggettiva ed ontologica (cioè indipendente da ogni eventuale o ulteriore prestazione assistenziale attiva) situazione d’inabilità che provoca in sé e per sé disagi e diminuzione di capacità reddituale. Tali indennità o il risarcimento sono accordati a chi si trova già così com’è in uno svantaggio, al fine di pervenire in una posizione uguale rispetto a chi non soffre di quest’ultimo ed a ristabilire una parità morale e competitiva. Essi non determinano infatti una “migliore” situazione economica del disabile rispetto al non disabile, al più mirando a colmare tal situazione di svantaggio subita da chi richiede la prestazione assistenziale, prima o anche in assenza di essa” (così nella motivazione, sub n. 6, di Cons. Stato, Sez. IV, sent. n. 842 del 03/12/2015 – 29/02/2016, Presidenza Cons. Ministri ed altri vs. Loffedo ed altri, in www.dirittoegiustizia.it).
Può, dunque, affermarsi che il discrimine tra entrate patrimoniali rilevanti ovvero non rilevanti nell’accezione di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, sta non già nell’essere il reddito imponibile ovvero esente o soggetto a ritenuta alla fonte o ad imposta sostitutiva ma nella natura effettivamente reddituale o meno, nel senso che concorrono al reddito le somme percepite a titolo risarcitorio ove esse siano destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, mentre non costituiscono reddito nella diversa ipotesi in cui tendano a ristorare un pregiudizio di diversa natura.
Quale sia la causa e la finalità della erogazione di Euro 11.940,00 percepita nell’anno 2014 – quale “reddito esente” – dal padre del ricorrente da parte dell’Inail a titolo di indennizzo per la morte di un figlio non si evince dal contenuto della scarna nota dell’Agenzia delle entrate del 9 maggio 2018 ed è situazione di fatto che dovrà approfondire il giudice di merito.
La Corte di appello e, prima ancora, il Tribunale, infatti, non sono riusciti a spiegare perché l’indennità percepita dal padre dell’imputato sia non solo o non tanto reddito esente, quanto reddito rilevante ai fini dell’ammissione o meno al patrocinio a spese dello Stato, ciò che è il punto centrale della questione.
4. Consegue l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Torino.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Torino per nuovo giudizio.