È stata depositata oggi 29 settembre 2020 la sentenza 27119/2020 della Corte di Cassazione, sezione 1 penale (in calce), che ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso proposto da un condannato avverso la decisione  con la quale il Tribunale di sorveglianza aveva rigettato la sua richiesta di detenzione domiciliare.
In particolare, l’istante lamentava che l’impugnato provvedimento sarebbe stato affetto da erronea applicazione dell’art. 47-ter L. 26 luglio 1975, n. 354 (c.d. ordinamento penitenziario).
Tale norma prevede quanto segue: “La pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza ovvero, nell’ipotesi di cui alla lettera a), in case famiglia protette, quando trattasi di:… c) persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali;…”.
A detta del ricorrente (che al momento della domanda doveva scontare meno di 2 anni di reclusione), il Tribunale non avrebbe tenuto conto delle sue gravi condizioni psicofisiche, ignorando peraltro le relazioni del carcere di Viterbo, dalle quali sarebbe emersa “l’incompatibilità con il regime detentivo ordinario”.
Di tutt’altro parere è invece la Cassazione, la quale evidenzia come – secondo i Giudici di merito – il carcerato non soffrisse affatto di una malattia pericolosa per la vita, nè seriamente grave ed in ogni caso si sarebbe tratto di patologia curabile anche in regime inframurario.
In siffatte evenienze, rammentano gli Ermellini, è necessario contemperare il diritto del condannato a ricevere idonee cure sanitarie con l’altrettanto legittima pretesa della collettività alla sicurezza.
Con riferimento a quest’ultima tematica, nel caso di specie, i molteplici precedenti penali del condannato non avrebbero consentito di ipotizzare alcun rispetto delle prescrizioni che gli sarebbero state impartite, in caso di concessione della detenzione domiciliare.
E’ altresì valorizzata l’ostentata indifferenza ad un reinserimento sociale, quale elemento preclusivo della richiesta detenzione domiciliare.
La Cassazione ravvisa poi un vulnus argomentativo del ricorso, laddove esso non si confronta con la compatibilità delle condizioni psicofisiche del detenuto col regime detentivo, come espressamente accertato dal Giudice di merito.
Alla luce di quanto sopra, il supremo Organo decidente ritiene, in considerazioni delle concrete peculiarità della vicenda, l’insussistenza di alcuna violazione del diritto alla salute dell’istante e di alcun contrasto della pena detentiva in essere con il senso di umanità costituzionalmente tutelato.
Conseguentemente viene confermato l’impugnato provvedimento, il cui impianto motivazionale è espressamente ritenuto “immune da censure”.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 23 giugno – 29 settembre 2020, n. 27119
Presidente Iasillo – Relatore Cairo

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

1. Con l’ordinanza in epigrafe, in data 18/12/2019, il Tribunale di sorveglianza di Roma rigettava la richiesta di detenzione domiciliare avanzata nell’interesse di Ja. Br.. Al momento della domanda l’istante era in espiazione della pena di un anno, undici mesi e ventotto giorni di reclusione, di cui al cumulo emesso dalla Procura della Repubblica di Cuneo il giorno 1/8/2018, per i reati di truffa e sostituzione di persona, commessi nell’anno 2010, di falsità e di violazione della misura di prevenzione (2013), con un fine pena al 7/9/2021.
Premetteva l’adito Tribunale che l’istante aveva fatto ingresso dalla libertà nella struttura penitenziaria di Viterbo, all’esito del rigetto delle istanze operato dal Tribunale di sorveglianza di Torino.
Rilevava che v’erano diverse segnalazioni di P.S., oltre a precedenti penali e carichi pendenti, che davano conto di un rischio di ricaduta nel reato. Si presentava, peraltro, un contesto familiare e abitativo precario. Ja. viveva in una roulotte, insieme a sette componenti il nucleo familiare; aveva continuato a frequentare persone pregiudicate ed erano assenti comprovate fonti lecite di guadagno, per il suo sostentamento.
Lo stesso istante, osservava il Tribunale, era stato denunciato dalla moglie per maltrattamenti e, al di là della remissione di querela, il 12/11/2019, da parte della donna, era stato sottoposto a TSO, nel periodo compreso tra l’1 e il 7 agosto 2019, a seguito di uno scompenso psicotico.
Il Tribunale dava conto del quadro patologico che si ricavava dalla relazione sanitaria (obesità, ipertensione, ipercolesterolemia, schizofrenia paranoide cronica) aspetto che, tuttavia, non esauriva la valutazione da compiere, dovendo Ja. aderire alle prescrizioni imposte.
Si trattava di patologie suscettibili, del resto, di essere adeguatamente curate in carcere.
2. Ricorre per cassazione Ja. Br., con il ministero del suo difensore di fiducia e lamenta il vizio di motivazione, in ordine all’erronea applicazione della legge penale sui gravi motivi di salute ex art. 47-ter L. 26 luglio 1975, n. 354.
Il detenuto era affetto da schizofrenia paranoide cronica e il carcere di Viterbo aveva ritenuto l’incompatibilità con il regime detentivo ordinario, indicando la necessità di una continuità terapeutico assistenziale presso il CPS di riferimento. Il quadro clinico era confermato all’udienza del 18/12/2019 nella nuova relazione aggiornata.
La motivazione risultava, dunque, viziata nella parte in cui aveva ritenuto che la condizione di salute fosse destinata a migliorare nel contesto detentivo. Si trattava di una conclusione in contrasto logico e medico-scientifico con le acquisizioni a disposizione. Ja. era, invero, affetto da una patologia psichiatrica grave che risaliva al 2006 e non era gestibile in ambito intramurario.
Il richiamo ai delitti commessi era stato travisato, poiché si trattava di fatti che erano stati commessi in una condizione di delirio psicotico paranoide verso i familiari. D’altro canto il detenuto aveva diritto a essere curato adeguatamente a non essere sottoposto a trattamenti non tollerati dalle condizioni di salute.
3. Il ricorso è manifestamente infondato e, in parte, proposto fuori dei casi ammessi.
3.1. Esso non si confronta compiutamente con la motivazione sviluppata dal Tribunale di sorveglianza.
Secondo il Tribunale di sorveglianza non ricorrevano gli estremi per ritenere che il detenuto fosse affetto da una patologia idonea a mettere in pericolo la vita o a provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, tale da esigere un trattamento che non si potesse attuare nello stato di detenzione, dovendosi in proposito operare un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività (Sez. 1, n. 789 del 18/12/2013, dep. 2014, Mossuto, Rv, 258406; Sez. 1, n. 972 del 14/10/2011, dep. 2012, Farinella, Rv. 251674).
La storia giudiziaria di Ja., si è annotato, non era tale da indurre una prognosi positiva sul rispetto di prescrizioni accessorie alla misura della detenzione domiciliare. Ciò neppure per la misura di cui all’art. 47-ter comma 1 lett. c) Ord. Pen. che, oltre a presupporre costanti contatti con i presidi sanitari territoriali, richiede la capacità del soggetto di aderire in autocontrollo alle prescrizioni imposte.
Questo elemento non si coglieva, appunto, nella storia personale dell’istante che aveva violato le norme penali almeno fino al 21/5/2018. La pericolosità sociale e la mancata adesione al piano di reinserimento sociale, proposto dai servizi territoriali, erano, dunque, elementi che deponevano per una condizione ostativa al beneficio della detenzione domiciliare invocata.
Né in questa logica coglie nel segno il dedotto travisamento secondo cui il Tribunale avrebbe errato nel ritenere che l’ambiente carcerario avrebbe permesso un trattamento clinico di maggiore pregnanza.
Il ricorso non si conforta compiutamente con il ragionamento sviluppato dal Giudice di merito che ha semplicemente evidenziato come le condizioni psicofisiche del detenuto potessero essere adeguatamente controllate in contesto detentivo. Già la presa in carico da parte dei servizi dell’istituto ne avrebbe permesso un miglioramento, con assunzione costante di terapia ed effettuazione periodica di colloqui psicologici e psichiatrici.
Risulta, dunque, correttamente valutato il quadro clinico che caratterizza la condizione del condannato ed è riassunto nel provvedimento impugnato nella sua completezza, con correlata spiegazione delle ragioni a fondamento della decisione di respingere la richiesta avanzata.
Non risulta, del resto, su tale base, che l’espiazione della pena in atto contrasti, allo stato e, in concreto, con il diritto alla salute o con il senso di umanità costituzionalmente garantiti, in quanto non si evidenziano condizioni tali da far postulare conseguenze dannose, anche sul piano della dignità umana, così da privare la pena del suo significato rieducativo.
Le cure e i trattamenti clinici sono indicati come praticabili -e in effetti praticati- all’attualità, nella struttura penitenziaria.
L’ordinanza impugnata, dunque, tratta ogni aspetto, con motivazione immune da censure, sia per il profilo di pericolosità che per quello clinico. Su quest’ultimo il ricorso rimette la ponderazione e la qualificazione anche di aspetti di merito e di valutazioni in fatto che non possono essere affidate allo scrutinio di legittimità.
Sulla base di quanto illustrato, il ricorso va dichiarato inammissibile. Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro tremila a titolo di sanzione pecuniaria, in ragione delle questioni dedotte.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.